sabato 18 marzo 2017

Di quanti stranieri abbiamo bisogno?

"Per stare in equilibrio tra pensionati e lavoratori noi avremo bisogno di 160 mila ingressi ogni anno, solo per stare in equilibrio. Noi abbiamo oggi circa 6 milioni di immigrati che producono l’8 per cento del Pil. Che cosa vogliamo fare di questa popolazione di cui abbiamo peraltro bisogno?"

Così disse Emma Bonino qualche giorno fa in un incontro dedicato all'Europa.
E subito gli ha fatto eco Giuliano Pisapia, durente un altro evento: "Abbiamo bisogno di 200 mila migranti ogni anno".

Diciamo innanzitutto che gli ingressi di stranieri in Italia negli ultimi anni sono stati ben superiori ai 'piani' della Bonino o Pisapia (circa 250 mila). E che ben superiori a questi numeri sono gli ingressi previsti in futuro in molte stime demografiche (demoistat).

Di quanti stranieri (o migranti) abbiamo veramente bisogno?

Diciamo subito che "pianificare" l'economia, o l'occupazione, non ha mai dato buoni frutti.
I "piani" costruiti a tavolino dai politici si sono sempre infranti contro la realtà dei fatti (economici).
L'economia ha le sue ragioni, e le sue leggi, che i politici non conoscono.

L'idea di fondo della politica nostrana è molto semplice:
"Facciamo sempre meno figli: 'Importiamo' stranieri".
"Dobbiamo pagare le pensioni: 'importiamo' stranieri, che diventeranno lavoratori e pagheranno quindi le pensioni".
"La nostra economia rallenta, fatica: 'Importiamo' stranieri, che diventeranno consumatori"

Idea semplice, quanto ingenua. Perché le cose non vanno così.
E bisognerebbe parlare e ragionare soltanto di come vanno  e funzionano le cose, non di come vorremmo che funzionassero.

Se 'importiamo' stranieri, questi, per poter dare un contributo, e che sia aggiuntivo, alla nostra economia, alla nostra occupazione, ai nostri consumi, al pagamento delle nostre pensioni, devono diventare lavoratori in più.
Se gli occupati stranieri vanno semplicemente a sostituire lavoratori italiani, la nostra economia, i nostri consumi, le nostre pensioni non possono riceverne alcun vantaggio.

Abbiamo già affrontato questo tema in questo articolo, vediamo ora di approfondirlo interrogando l'unico che può dirci la verità su come vanno veramente le cose: il mercato del lavoro (attraverso i dati sull'occupazione di Istat)


Purtroppo questi dati sono scomponibili secondo la cittadinanza solo a partire dal 2004, ma possiamo ben intuire (e ricostruire) gli andamenti dell'occupazione anche per anni precedenti, sapendo che la presenza di occupati stranieri prima del 1995 era del tutto marginale.

Cosa ci dicono i dati?
Che fino alla crisi, a livello generale, l'economia sembra aver assecondato i voleri dei 'pianificatori':
Dal 1995 al 2008 gli occupati sono cresciuti - anche grazie alle riforme del mercato del lavoro - e per tutte e due le componenti.
Più precisamente, dal 1995 al 2005, in 10 anni, gli occupati sono cresciuti di 2 milioni (da 20,5 milioni a 22,5 milioni): di 1 milione è stata la crescita degli occupati stranieri, di 1 milioni la crescita degli occupati italiani.
Ma già nei 3 anni successivi, fino alla crisi, l'occupazione italiana è rimasta stabile, mentre è cresciuta ancora quella straniera, di circa 800 mila.
Con la crisi è crollata l'occupazione italiana, dai 21,5 milioni del 2008 ai 20 milioni del 2013, quindi di un milione e 500 mila. Gli ultimi due anni hanno visto una ripresa dell'occupazione italiana che ha portato il crollo dall'inizio della crisi a circa un milione in totale. Nel frattempo l'occupazione straniera invece è cresciuta, di circa 700 mila.

Negli ultimi dieci anni di 'crisi' quindi vi è stata una sostituzione di occupazione italiana con occupazione straniera. E l'occupazione totale è ancora inferiore a quella precedente la crisi.

Uso senza timore il termine sostituzione, perché, in campo economico, è una parola quanto mai innocua.
Molti immaginano la sostituzione come quella dell'operaio italiano che viene licenziato per assumere l'operaio straniero. Ovviamente non è questa la sostituzione di cui parliamo, e che è avvenuta in Italia.

In economia esistono beni sostituti, che soddisfano un "medesimo bisogno del consumatore", e sono quindi tra loro 'concorrenti'; ma a ben vedere, tutti i beni sono tra loro sostituti, in senso più ampio, e quindi tra loro concorrenti, perché tutti cercano di contendersi il denaro del consumatore:
se decido di fare una vacanza in montagna, non farò una vacanza al mare, e le due spese sono quindi sostitute, ma facendo la vacanza in montagna dovrò magari anche rinunciare al nuovo televisore che volevo comprare, o allo scooter, o a quei gioielli che volevo regalare alla fidanzata, etc.
Ugualmente, per il mercato del lavoro:
Se suddividiamo gli occupati totali secondo la cittadinanza, quindi tra italiani e stranieri, l'aumento degli occupati stranieri a fronte della riduzione degli occupati italiani non può che chiamarsi sostituzione.
Ed è una sostituzione sia diretta che indiretta:
In via diretta perché l'imprenditore che sceglie di assumere un operaio straniero, non sceglie di assumere un operaio italiano.
In via indiretta, perché come nell'esempio precedente, tutti i beni offerti sul mercato sono tra loro concorrenti, e questo vale anche per il lavoro, questo vale anche tra lavori molto differenti:
se un anziano trova conveniente assumere una badante, straniera, avrà indirizzato il consumo, quindi i suoi soldi, per quella spesa, rinunciando ad altri servizi, magari professionali, legali, culturali.
Avviene così che l'aumento delle badanti possa togliere lavoro persino ad architetti, avvocati, ingegneri, etc.

"Ma sarà così solo in una economia statica o in declino", si obietterà.
Che è appunto quella che abbiamo in Italia da quasi dieci anni a questa parte.

Ma vediamo di scomporre il grafico visto precedente in maniera più efficace, per territori e per sesso, per evidenziare qualche altra particolarità del mercato del lavoro.



Questi due grafici ci dicono che il crollo del lavoro italiano non ha riguardato in misura uguale uomini e donne: le donne hanno mantenuto quasi lo stesso livello pre-crisi, dopo essere aumentate per molto tempo (crescita fin dall'inizio della serie). In qualsiasi caso, quindi, questa crescita si è interrotta.
Il crollo ha riguardato più che altro l'occupazione maschile. In questo caso, tracciando una curva immaginaria che completi anche i dati mancanti dal 1995 al 2004, si può vedere facilmente che, addirittura, il numero di occupati, per gli uomini, è probabilmente calato della metà degli anni '90 fino agli anni 2000, è rimasto costante per qualche anno, ed è crollato con la crisi, di un milione e mezzo prima, un milione in totale. Appunto le variazioni già evidenziate in precedenza.
Quanto agli stranieri, la crescita è stata abbastanza simile per uomini e donne: + 900 mila per gli uomini, +700 mila le donne, dal 2004 ad oggi.

Vediamo altri dettagli per territorio:

Nord-Ovest:




Il Nord-Ovest è l'area dove la sostituzione italiani-stranieri è stata più evidente,
Gli occupati italiani uomini sono verosimilmente calati in tutti gli anni '90.
Sono rimasti stabili fino alla crisi per poi crollare, di 300 mila unità.
Nel frattempo gli occupati stranieri sono cresciuti continuamente, fino a 500 mila unità, + 200 mila circa durante la crisi.
Meglio per le donne: anche qui l'occupazione delle italiane è cresciuta durante gli anni '90, è rimasta stabile per tutti gli anni 2000, anche durante la crisi. Nel frattempo quella stranieri arrivava a circa 400 mila.

Qui sotto vediamo la situazione per le altre zone:

Nord-est, con considerazioni simili a quelle fatte per il Nord-Ovest




Centro:




Mezzogiorno:




Quindi, stando agli andamenti del mercato del lavoro, possiamo vedere che l'occupazione straniera, negli ultimi dieci anni, ha semplicemente sostituito quella italiana.
Qualunque ulteriore apporto di stranieri, visti questi andamenti, se l'economia italiana non cambia "passo", non apporterebbe alcun contributo aggiuntivo. E potrebbe invece avere altre conseguenze negative.

Ma questi dati non bastano.
Qualcosa di ancora più eloquente ci viene dalle variazioni degli occupati, stranieri.


O dalla percentuale di nuovi occupati stranieri calcolata sullo stock di potenziali occupabili (disoccupati + inattivi):


Come si può vedere, sebbene gli occupati siano cresciuti continuamente negli ultimi anni, sostituendo lavoro italiano, è anche vero che questa crescita è rallentata, ed è arrivata ultimamente a valori minimi.
Se fino ad ora, quindi, l'occupazione straniera è cresciuta, per motivi che ora non analizzeremo, è probabile che questi motivi si siano quasi esauriti, o, detto in altro modo, anche il mercato del lavoro straniero si è quasi saturato.

Dove andranno a finire quindi i 160 mila o 200 mila stranieri che molti vorrebbero continuare ad "importare"? Sicuramente ad aumentare il numero di disoccupati o inattivi stranieri, con evidenti costi economici e sociali.



Il problema quindi non è stabilire di quanti stranieri ha bisogno la nostra economia, ma come fare per creare più occupazione, per gli italiani e per gli stranieri.
Ovvero, come uscire da questa crisi eterna.

domenica 12 marzo 2017

Quanto vale la rapina pensionistica

A cosa si deve l'alta spesa pensionistica italiana che ci vede in cima alle classifiche mondiali?



Sicuramente alle generose condizioni del sistema retributivo, con cui, è bene ricordarlo, sono ancora pagate quasi il 90% delle pensioni in essere, 97% considerando anche le retributive miste (qui sotto, ad esempio, le pensioni vigenti nelle gestioni private Inps, per regime di liquidazione)




Queste condizioni generose riguardano, come già ricordato altre volte, sia il livello degli assegni pensionistici in rapporto ai contributi realmente versati, sia la possibilità di accedere molto presto alla pensione (pensioni di anzianità) senza alcuna penalizzazione. (sotto due grafici molto esplicativi delle due questioni).






E' stato quindi questo cumulo di "privilegi" che ci ha portato alla situazione attuale.

Ma quanto vale la Rapina Pensionistica causata dal retributivo?
E come valutarne l'entità, soprattutto?


Un metodo potrebbe venire dal confronto con la spesa che gli altri paesi hanno saputo tenere (o "contenere").
Vediamo questi primi grafici, che mostrano la spesa pensionistica italiana, nelle diverse componenti "pensioni di vecchiaia" (old age),  "pensioni ai superstiti" (survivors), e "pensioni di invalidità/incapacità" (incapacity related), in confronto a quella degli altri paesi Oecd.





Nei grafici, il livello della spesa italiana, in blu è confrontato con la media degli altri paesi Oecd, linea verde, ma soprattutto con i valori minimo e massimi registrati negli altri paesi ogni anno (estremi inferiori e superiori delle barre rosse che fanno da sfondo).

Si nota subito che la spesa per le pensioni di vecchiaia e per i superstiti è sempre stata molto superiore a quella Oecd; in particolare, riguardo alle pensioni di vecchiaia (vecchiaia, anzianità, prepensionamenti, nelle nostre classificazioni) la spesa italiana supera quella di tutti gli altri paesi da mlto tempo, dai primi anni '90 (linea blu oltre il limite superiore delle barre rosse, massimo registrato negli altri paesi).
Per le pensioni ai superstiti, siamo sopra tutti gli altri vaori dai primi anni 2000.
Si noterà anche, che la spesa per pensioni di invalidità/inabilità è invece persino inferiore alla media Oecd - contro molte credenze assai diffuse.

Visto che la spesa "anomala" risulta quella per vecchiaia e per i superstiti limitiamo i nostri confronti a questa.



Consideriamo quindi la differenza tra la spesa per pensioni (vecchiaia + superstiti) italiana e quella media Ocse.



Tale differenza è passata dal 2% del 1980 al 8% del 2013.

Queste percentuali (su pil) possono essere trasformate facilmente in miliardi di euro correnti, e, attraverso gli opportuni indici di rivalutazione (istat), in miliardi attuali (2015).



Ecco quindi stimati i valori della Rapina pensionistica: dai 20 miliardi del 1980 ai 120 miliardi del 2013. Per un valore cumulato - dal 1980 al 2013 - che sfiora i 3 MILA MILIARDI.

Ma a questo punto, immaginiamo già una obiezione, sollevata da molti:
"L'elevata spesa per pensioni dipende anche dall'elevata presenza di anziani, ovvero ha origini demografiche"
In parte è così, ma solo IN PARTE. Vediamo perché?

Nel seguente grafico confrontiamo la spesa per pensioni (% di pil) con l'indice di dipendenza anziani, un parametro che indica quanto appunto sia "anziano" un paese, in questo caso, rappresentato semplicemente dal rapporto tra popolazione over 65 e popolazione tra il 20/64 anni.



E' vero che esiste una chiara correlazione. Ma si nota anche che molti paesi con un indice simile a quello italiano (Germania, Portogallo, Finlandia, Svezia) hanno saputo mantenere una spesa molto più bassa; il Giappone, addirittura, con un indice di dipendenza moltp i elevato ha una spesa molto più bassa.

E questa particolarità italiana è ben evidente anche nel tempo (si veda per esempio il confronto con la Germania qui sotto)



"Tutti paesi con un sistema pensionistico molto diverso da quello italiano", si dirà.
Ed è proprio questo il punto.
Non si capisce perché anche l'Italia non abbia costruito un sistema che erogasse pensioni "giuste, ma non eccessive", e che non pesasse quindi troppo sulle nuove generazioni.

Quindi, il fatto che l'Italia sia un "paese di vecchi" può spiegare solo in parte il primato italiano sulla spesa pensionistica. Il resto si deve alla generosità del sistema pubblico.
In che quota?
Anche questo può essere stimato:
Basterebbe "normalizzare" la spesa pensionistica italiana, utilizzando proprio l'indice di dipendenza anziani della media Ocse.
In questo caso, si nota che questo fattore "anziani" può spiegare all'incirca metà della differenze con la media. L'altra metà deve essere dovuta alla generosità del sistema.



Accogliendo quindi l'obiezione esposta prima, proviamo quindi a considerare solo la componente "generosità del sistema".




In questo caso, i valori della rapina, sempre rivalutati al 2015, vanno dai 9 miliardi del 1980 ai 60 del 2013.
Cifra attuale che corrisponde più o meno a quella derivante da altre stime, per esempio quella risultante da un possibile ricalcolo contributivo delle attuali pensioni retributive.
Il valore cumulato fino al 2013 arriva alla cifra di 1500 miliardi di euro (2015).

Ecco, questo potrebbe essere il VALORE DELLA RAPINA PENSIONISTICA.

mercoledì 8 marzo 2017

Abolire i sindacati, per il bene dei lavoratori

"Abolire i sindacati? Ma sei matto? E la libertà sindacale?...La libertà di associazione?... e chi difenderà i diritti e gli interessi dei lavoratori?.."

Sì, bisogna abolire i sindacati, o quanto meno gli attuali sindacati, l'attuale sistema sindacale, e proprio per difendere la libertà sindacale, per garantire la libertà di associazione, proprio per il bene dei lavoratori; per assicurare a tutti i lavoratori la migliore rappresentanza dei propri interessi.

Perché bisogna dire le cose come stanno: i sindacati, questi sindacati, con la libertà sindacale, con la libertà di associazione, e con la difesa dei diritti e dei lavoratori non c'entrano proprio nulla.
Almeno, non più. E da molto tempo.

"Ma ci sono certi diritti che non puoi tocc..."
Attenzione: anche i diritti feudali erano diritti, ma nessuno oggi metterebbe in dubbio che è stato un bene abolire quei diritti.
Perché ai diritti dei sindacati – veri 'feudatari' della nostra epoca – bisogna preferire la libertà e i diritti dei singoli lavoratori.


Si potrebbero spendere molte parole, fare molti ragionamenti, per sostenere questa tesi, ma è molto più efficace far parlare i fatti:

A cosa servono i sindacati? "A garantire migliori condizioni di lavoro, per ottenere salari più alti", direbbe il sindacalista.
Mi sta bene, allora ragioniamo su questo punto.

Ammettiamo che in Italia ci siano dei sindacati molto forti, validi, che riescano ad ottenere alti salari, buone condizioni di lavoro, diritti. Non avremmo nulla in contrario: i sindacati hanno raggiunto i loro scopi, e con essi i lavoratori.
Certo, bisognerebbe valutare quali conseguenze quei "successi" potrebbero avere.
Gli alti salari potrebbero essere anche "eccessivi", forse togliendo risorse alle imprese, che non potrebbero più investire, e quindi aumentare la propria produttività, e perderebbero quote di mercato... in pratica, quei "successi" momentanei potrebbero - dico, potrebbero - tradursi, alla lunga, in "insuccessi", e per gli stessi lavoratori.
Oppure, ed è quello che sostengono molti economisti, gli alti salari potrebbero accompagnarsi a bassa occupazione (se un lavoratore mi costa tanto, allora devo impiegare meno lavoratori).
Ma non dilunghiamoci troppo su questa ipotesi.
Ragioniamo su quella opposta:
Ammettiamo che in Italia ci siano dei sindacati che... non riescono nemmeno ad ottenere questo: i salari sono bassi, le condizioni..non buone, e i diritti si riducono...e per giunta la disoccupazione è alta. Vi sembra famigliare?
In quel caso, cosa dire dei sindacati? Sicuramente che hanno fallito il loro scopo, la loro funzione. E quindi che è ora di cambiare sistema.

Questa è proprio la situazione che abbiamo in Italia.
Ecco perché bisogna abolire i sindacati.
Certo, si potrebbe obiettare che quei "sindacati molto forti" in realtà sono "molto deboli", ma è a sua volta una tentativo di difesa molto debole, visto il ruolo dei nostri sindacati.


Ripetiamo alcuni FATTI. Per chi ha scarsa memoria.

La retribuzione netta media in Italia valeva, nel 2015, 27.808 $ (a parità di potere di acquisto) di poco superiore a quella greca (25.927 $, -1.881 $ di differenza).
Quelle spagnole valgono 31.037 $ (3.229 più di quelle italiane), 32.762 $ quelle francesi (4.954 in più di quelle italiane), 36.194 $ quelle tedesche (+8.386), 37.899 $ per USA (+10.091), 39.381  $ per quelle britanniche (+11.573), 57.756 $ quelle svizzere (+29.948), in quest ultimo caso più che doppie rispetto a quelle italiane.



Ma da cosa dipendono queste basse retribuzioni? principalmente da due fattori (anzi tre):

1) In primo luogo, dalla produttività delle imprese, ovvero da quanto le imprese (di qualsiasi tipo) riescono a produrre con una certa quantità di lavoro e capitale:
Se le imprese hanno una produttività più alta, potranno pagare retribuzioni (anche) più alte.

2) Data poi una certa produttività, la "quota" che il dipendente potrà ottenere come remunerazione del proprio lavoro, dipenderà dal proprio potere contrattuale.

3) Infine, visto che sul lavoro pesa sempre un certo peso (cuneo) fiscale, la retribuzione netta dipenderà anche da come questo cuneo sarà ripartito tra imprese e dipendente (ma in fin dei conti anche questo risultato dipende sempre dal relativo potere contrattuale).

Guardando al primo fattore, l'azione sindacale non ha ovviamente il potere di modificare direttamente la produttività delle imprese, ma esiste comunque una azione indiretta, specie quando i sindacati rivestono un ruolo 'nazionale': le diverse scelte sindacali possono indirizzare verso una certa 'politica industriale', favorendo certe industrie o certi settori, e possono quindi favorire o contrastare la crescita della produttività, sia a livello della singola impresa, sia nell'intero sistema produttivo.
Sugli altri due punti, i sindacati hanno evidentemente un ruolo diretto.

Ebbene, le basse retribuzioni italiane derivano sia da una bassa crescita delle produttività generale, sia da una bassa partecipazione delle retribuzioni alla produttività creata (e quindi anche da un maggior peso del cuneo fiscale a carico dei dipendenti), ovvero ad uno scarso potere contrattuale.

Riguardo alla produttività delle imprese, vediamo come è cambiata negli ultimi anni.


La produttività reale in Italia è cresciuta molto debolmente fino al 2000, poi si è praticamente fermata.
Credete che i sindacati con questo risultato non c'entrino nulla?

Riguardo alla quota che riesce ad ottenere il "salario" sul valore aggiunto prodotto, possiamo vedere questi grafici, relativi al costo del lavoro e alle retribuzioni lorde in rapporto al valore aggiunto per diversi paesi, ottenuti sommando i dati Oecd per le imprese finanziarie e non finanziarie (imprese con più di 5 dipendenti).




Cosa dicono questi grafici? Credo si veda bene.
Che il costo del lavoro italiano (e le retribuzioni lorde)  in rapporto al valore aggiunto prodotto, risulta, da molto tempo, molto basso.
Fino alla crisi, una impresa (o 'banca') in Italia che produceva 100 (di valore aggiunto) pagava 50 il lavoro utilizzato per produrre quel valore aggiunto. Altrove, per produrre 100, si pagava 60-65.
Poi le differenze sono scese.

In un altro articolo avevamo anche provato a stimare le retribuzioni nette, sempre in rapporto al valore aggiunto (questa volta con elaborazioni limitate alle sole imprese non finanziarie), con questi risultati :




Cosa significano questi dati? Che, a parità di valore aggiunto, a parità di produttività, in Italia, e da molto tempo, i lavoratori hanno un potere contrattuale molto più basso rispetto a tanti altri colleghi di altri paesi. E perché? Si potrebbero ricercare mille cause diverse. Prendiamo la più semplice: Se i contratti li fanno i sindacati, la colpa non può che essere dei sindacati.
Per incapacità? Per complicità (con altri interessi che non sono quelli dei lavoratori)?
Probabilmente per entrambe.

E si noti. Abbiamo parlato anche di cuneo fiscale.
Le retribuzioni nette in Italia sono basse anche per l'alto cuneo fiscale.



Si sentono spesso molti imprenditori lamentarsi proprio dell'alto cuneo fiscale, sostenendo che questo riduce i salari netti, ed aumenta il costo del lavoro. Certo, potrebbe anche aumentare il costo del lavoro, potrebbe: dipende da come si ridistribuisce quel cuneo. Ma i dati sembrano smentire questa interpretazione, visto che il costo del lavoro - rispetto al VA - resta comunque basso.
Quindi sì, il cuneo fiscale è altissimo, ma è a carico quasi completamente dei dipendenti.
Un altro fantastico successo dei sindacati.


Se quindi i sindacati non sono capaci di raggiungere gli obiettivi per cui sono nati ed esistono, questi sindacati non dovrebbero esistere: bisognerebbe togliere loro il potere di contrattazione e di rappresentanza, e restituirlo ai lavoratori, ovvero ai legittimi proprietari di questi diritti e interessi.

La libertà sindacale, la libertà associativa, non può che avere per fondamento i reali interessi dei lavoratori, non i giochi di bottega dei sindacati che danneggiano i lavoratori.

mercoledì 1 marzo 2017

Il Clup dei misteri stravaganti

"Il vero problema è che in Italia il costo del lavoro è troppo alto"....
"I salari in Italia sono cresciuti molto più della produttività, e abbiamo perso competitività.."
"Per tornare competitivi, bisogna ridurre il costo del lavoro..."

Queste opinioni sono ormai molto comuni: si trovano molto spesso sui giornali, in televisione, in rete, sui social, e da diverso tempo.

Io credo che queste opinioni siano completamente false, e voglio dimostrarlo.

Innanzitutto, chi riferisce le opinioni appena citate, lo fa spesso riportando questo grafico (o simili).



Il grafico mostra l'andamento del Clup (costo del lavoro su prodotto unitario), così come calcolato da  diversi enti, come l'Oecd, o Eurostat, per l'Italia e per la Germania.
Secondo molti, questo grafico mostrerebbe in maniera inequivocabile che "l'Italia ha un gap di competitività rispetto alla Germania di 40 pp"..o cose del genere.
Idea molto bizarra.
Il grafico mostra infatti un indice, un andamento, e considerare quella differenza come un "gap di competitività" sarebbe come confrontare la crescita (in altezza) di un adulto e di un bambino di 10 anni, negli ultimi 10 anni, e concludere che "il bambino è ormai molto più alto dell'adulto", solo perché è cresciuto di più.
E' vero che il "clup" (come calcolato da Oecd) è cresciuto di più in Italia, ma questo non significa affatto che sia più alto di quello tedesco.
Abbiamo sottolineato inoltre che questo clup è quello "calcolato da Oecd" perché è molto importante capire come è costruito questo indice, e comprendere quali "tranelli" possa nascondere. Lo vedremo.

Ma prima di fare questo, visto che si vuole confrontare il costo del lavoro sul prodotto unitario in Italia con quello tedesco, o con quello di altri paesi, possiamo prendere direttamente i dati di queste due grandezze, e farne il rapporto. Prendiamo proprio i dati di contabilità nazionale dai database Oecd (disponibili dal 1970).
Ecco il risultato.




E consideriamo anche il rapporto tra le retribuzioni lorde e il prodotto (valore aggiunto).



Come si può notare l'Italia presenta valori molto più bassi degli altri paesi.

Ma anticipiamo subito qualche critica ai grafici proposti:
Perché utilizzare direttamente i dati di contabilità nazionale non è molto corretto, principalmente perché il costo del lavoro fa riferimento al costo totale del lavoro impiegato per le varie imprese e attività per produrre certi beni e servizi, ma il prodotto creato (valore aggiunto) viene prodotto anche da quell'insieme di 'imprenditori' che non fanno uso di dipendenti, ovvero dei lavoratori autonomi.
Questo rapporto quindi può rappresentare correttamente la quota del costo del lavoro rispetto a quanto prodotto da una certa economia, ma non il rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto (medio) per le imprese di quel paese.
Come 'correggere' questo errore? Si possono usare diverse tecniche, più o meno criticabili.
Poi vedremo il metodo utilizzato da Oecd.
Noi invece preferiamo correggerlo utilizzando dati più attendibili, anche se "limitando" il nostro campo di osservazione.
I dati di contabilità nazionale, sono infatti suddivisibili, da molto tempo, anche per "settori istituzionali": è così possibile considerare il valore aggiunto e il costo del lavoro soltanto per le imprese (imprese non finanziarie o imprese finanziarie), escludendo il settore pubblico, le famiglie consumatrici e quelle produttrici.
Secondo le metodologie comuni, nelle famiglie produttrici vengono incluse tutte le attività imprenditoriali con meno di 5 dipendenti, comprendendo quindi tutti gli "autonomi"citati prima.
Il rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto limitato alle imprese non finanziarie (o a quelle finanziarie) può darci quindi una misura corretta del Clup delle imprese di un certo paese.
Il difetto, per questa scelta, è che questa classificazione, per settori istituzionali, parte dai dati del 1995. Non esistono dati precedenti. Ci dobbiamo quindi accontentare.
Ecco quindi i grafici del costo del lavoro e delle retribuzioni in rapporto al valore aggiunto, limitati alle imprese non finanziarie.




I grafici confermano il basso valore del clup italiano rispetto ai suoi concorrenti negli anni '90 (possiamo ipotizzare un livello molto simile anche per gli anni precedenti alla serie) e una progressiva crescita a partire dai primi anni del 2000.
Quindi, è vero – se vogliamo assegnare al clup un valore di "indice di competitività" delle imprese – che l'Italia ha perso competitività durante gli anni 2000. Ma è solo perché partiva da una posizione di assoluto vantaggio. Il "gap competitivo" era tutto a vantaggio dell'Italia.
E non di poco. Il grafico è molto chiaro: negli anni '90, per produrre 100 euro di valore aggiunto, le imprese degli altri paesi spendevano 60-65 euro di costo del lavoro, le imprese italiane soltanto 50.

Come si è arrivati a questo "vantaggio"?
Possiamo fare una semplice valutazione su quanto avvenuto negli anni '90 – anche perché "storia nota" – un po' più difficile fare valutazioni sugli anni precedenti, perché come detto mancano dati completi; ma troveremo qualche valida alternativa.

Rappresentiamo qui alcuni grafici.








Come si vede bene, per tutti, l'andamento delle retribuzioni e del costo del lavoro italiano sembra discostarsi da quello della produttività e da quello degli altri paesi nel 1992-1993.
Il 1992 fu l'anno di una importante crisi per la nostra economia e la nostra industria, ma il 1993 fu soprattutto l'anno in cui fu avviata una politica di "moderazione salariale", promosso dal governo (Ciampi), firmato dai sindacati.
I risultati sono quelli visti nei grafici: le retribuzioni e il costo del lavoro si staccarono dalla produttività, almeno fino ai primi anni del 2000. Poi tornarono ad avvicinarsi.
Resta da capire quale fosse il livello del clup italiano prima degli anni '90. Difficile che questo 'vantaggio' si sia creato solo in un paio d'anni, dopo gli accordi del 1993.
Per fare chiarezza su questo punto possiamo utilizzare dei dati del Centro Studi di Mediobanca, che raccolgono i dati dei bilanci di molte imprese italiane, dalla metà degli anni '70. Anche se le imprese considerate da queste indagini sono quelle maggiori, con buona approssimazione possiamo pensare che gli andamenti del clup "elaborato" possano valere anche per le altre imprese.



Cosa si trova quindi? Innanzitutto il valore del clup a metà degli anni' 90 è simile a quello trovato con i dati Oecd (45-50%), a conferma delle nostre "ipotesi". A metà degli anni '70 invece il clup valeva il 70-75%
Non abbiamo dati degli altri paesi prima degli anni '90, ma dal confronto con i dati francesi del grafico già mostrato prima...



possiamo stimare che negli anni '70 il clup italiano fosse simile a quello francese (e forse degli altri paesi), ma è progressivamente diminuito (è diminuito anche altrove) e più velocemente di quanto non avvenuto negli altri paesi, fino al basso livello della metà degli anni '90, come già visto, anche per l'ulteriore "spinta" delle politiche del '93.
Tutto fa quindi supporre che l'Italia abbia sempre avuto - dalla fine degli anni '70 all'inizio degli anni 2000 - un notevole "vantaggio competitivo" rispetto agli altri paesi, in termini di Clup.
L'esatto contrario quello che lamentano molti.
Abbiamo però perso competitività negli ultimi anni? Il grafico ci dice che al massimo siamo tornati a quella del 1990. E resta da capire perché dovessimo avere questo "vantaggio competitivo" e come sia stato sprecato.
Gli altri paesi infatti hanno migliorato di molto il loro clup, ma – a differenza dell'Italia – migliorando la produttività, senza ridurre le retribuzioni, che invece sono cresciute più che in Italia.
Questa è l'unica strada della crescita. Che l'Italia ha perso da tempo.



Resta solo da vedere come l'Oecd calcoli il Clup, e spiegare alcuni "misteri", che possano svelare alcuni segreti del grafico riportato inizialmente.

Abbiamo detto che un semplice rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto da dati nazionali non sarebbe corretto, perché parte del VA è prodotto dagli autonomi, che per definizione non utilizzano lavoro altrui.
Come fa l'Oecd a correggere questo errore? Imputa ad ogni autonomo un "costo del lavoro" pari a quello medio dei dipendenti veri e propri. Nei fatti, questa correzione è fatta semplicemente calcolando un "self-employment ratio", rapporto tra gli occupati totali e i dipendenti, e moltiplicando il costo del lavoro dei dipendenti per questo fattore, ottenendo così un "costo del lavoro totale".
Tutti possono però comprendere quanto sia arbitraria questa ipotesi.
Ma questa non è l'unica stranezza dei conti dell'Oecd. Questa è ancora più "bizzarra":
Il clup dell'Oecd non è un rapporto tra Costo del Lavoro Totale (calcolato come abbiamo descritto), e Prodotto (Output) nominale; l'Oecd utilizza l'Output reale, corretto secondo l'andamento dell'inflazione. Ma se il clup dell'Oecd è quindi Costo del Lavoro / (Valore Aggiunto / Inflazione), in pratica risulta essere uguale al Clup, come da noi considerato (Costo del Lavoro /Valore Aggiunto), moltiplicato per l'inflazione. Ecco da cosa origina il "gap di competitività" con la Germania lamentato da molti: dalla maggiore inflazione che si è avuta in Italia.
Vediamo i grafici:



Il Clup vero e proprio - costo del lavoro totale su prodotto, è cresciuto in Italia di 4 pp.



All'inflazione dobbiamo invece una variazione di quasi 30 pp.
Il risultato è il Clup (Oecd) visto in partenza.



La Germania è riuscita a diminuire il suo Clup, sicuramente, ma questo è merito loro, e questa è comunque un'altra storia.


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Nota: Il titolo di questo post è un omaggio a G.K.C.