domenica 26 febbraio 2017

Italia Vs Ocse - confronto sulla spesa pubblica

Come è suddivisa la spesa pubblica italiana?
Proviamo a vederlo utilizzando i dati Oecd (Ocse), suddividendola per categorie funzionali (secondo la classificazione Cofog).
I valori sono espressi in miliardi, e ricaviamo anche i valori pro capite.

La spesa pubblica totale, per il 2015, è stata di 827,8 Miliardi - 13.630 euro per persona.

Per i Servizi pubblici generali : 137,8 Miliardi - 2.268,5  euro pro capite

All'interno di questa prima categoria funzionale, si è speso per:

Organi esecutivi e legislativi, attività finanziari e fiscali e affari esteri: 45,7 Miliardi - 752,9 euro p.c.
Aiuti economici internazionali : 1,0 Mld -17,3 euro p.c.
Servizi generali: 10,4 Mld - 170,5 euro p.c.
Ricerca di base: 5,0 Mld - 82,8 euro p.c.
R&S per servizi pubblici generali: 0,1 Mld - 2,3 euro p.c.
Servizi pubblici generali n.e.c: 4,9 Mld - 80,4 euro p.c.
Costo del debito/interessi: 70,6 Mld - 1.162,4 euro p.c.

Ad esclusione del costo debito quindi, questa voce ha avuto una spesa di:

Altre spese per Servizi Pubblici Generali esclusi gli interessi: 67,2 Mld - 1.106,1 euro p.c.


Per la Difesa: 19,7 Mld - 324,6 euro p.c.

All'interno di questa:

Difesa militare: 19,3 Mld - 317,1 euro p.c.
Aiuti militari all'estero: 0,2 Mld - 3,3 euro p.c.
Difesa n.e.c: 0,2 Mld - 4,0 euro p.c.


Ordine pubblico e sicurezza: 30,7 Mld - 506,0 euro p.c.

Servizi di polizia: 18,7 Mld - 307,9 euro p.c.
Servizi antincendio: 2,9 Mld - 48,1 euro p.c.
Tribunali: 5,7 Mld - 94,5 euro p.c.
Carceri: 3,3 Mld - 54,5 euro p.c.

Affari economici: 66,7 Mld - 1.098,2 euro p.c.

Affari economici, commerciali, del lavoro: 5,6 Mld - 92,1 euro p.c.
Agricoltura, foreste, pesca e caccia: 4,0 Mld - 66,5 euro p.c.
Combustibili ed energia: 13,8 Mld - 227,1 euro p.c.
Attività estrattive, manifatturiere, edilizia: 7,2 Mld - 118,8 euro p.c.
Trasporti: 27,0 Mld - 445,0 euro p.c.
Comunicazioni: 0,9 Mld - 14,3 euro p.c.
Altre industrie: 2,5 Mld - 41,8 euro p.c.
R&S per gli affari economici: 3,7Mld - 60,3 euro p.c.
Affari economici n.e.c.: 2,0 Mld -  32,2 euro p.c.

Protezione dell'ambiente: 15,9 Mld - 261,4 euro p.c.

Trattamento dei rifiuti: 10,6 Mld - 173,8 euro p.c.
Trattamento delle acque reflue: 0,6 Mld - 9,8 euro p.c.
Riduzione dell'inquinamento: 0,6 Mld - 10,5 euro p.c.
Protezione della biodiversità e dei beni paesaggistici: 3,1 Mld - 50,6 euro p.c.
R&S per la protezione dell'ambiente: 0,3 Mld - 5,4 euro p.c.
Protezione dell'ambiente n.e.c: 0,7 Mld - 11,2 euro p.c.

Abitazioni e assetto territoriale: 10,1 Mld - 165,6 euro p.c.

Sviluppo delle abitazioni: 3,9 Mld - 63,7 euro p.c.
Assetto territoriale: 3,0 Mld - 50,2 euro p.c.
Approvvigionamento idrico: 1,4 Mld - 22,9 euro p.c.
Illuminazione stradale: 1,7 Mld - 27,7 euro p.c.

Sanità: 117,0 Mld - 1.926,7 euro p.c.

Prodotti, attrezzature, apparecchi sanitari: 13,5 Mld - 222,0 euro p.c.
Servizi non ospedalieri: 44,4 Mld - 730,3 euro p.c.
Servizi ospedalieri: 51,4 Mld - 846,9 euro p.c.
Servizi di sanità pubblica: 4,6 Mld - 76,1 euro p.c.
R&S per la sanità: 1,3 Mld - 21,8 euro p.c.
Sanità n.e.c,: 1,8 Mld - 29,7 euro p.c.

Attività ricreative, culturali e di culto: 12,2 Mld - 200,4 euro p.c.

Attività ricreative: 4,2 Mld - 69,1 euro p.c.
Attività culturali: 5,9 Mld - 97,5 euro p.c.
Servizi radiotelevisivi e editoriali: 0,2 Mld - 3,5 euro p.c.
Servizi di culto e altri servizi per la comunità: 1,7 Mld - 28,8 euro p.c.

Istruzione: 65,2 Mld - 1.073,5 euro p.c.

Istr. prescolare e primaria: 24,7 Mld - 406,3 euro p.c.
Istr. secondaria: 29,4 Mld - 484,5 euro p.c.
Istr. post-secondaria non terziaria 0,4 Mld - 6,9 euro p.c.
Istr. terziaria: 5,8 Mld - 95,1 euro p.c.
Istr. di diverso tipo: 0,7 Mld - 11,4 euro p.c.
Servizi ausiliari per l'istruzione: 2,6 Mld - 42,6 euro p.c.
R&S per l'istruzione: 0,1 Mld - 2,2 euro p.c.
Istruzione n.e.c.: 1,5 Mld - 24,4 euro p.c.

Protezione sociale: 352,6 Mld - 5.805,5 euro p.c.

Malattia e invalidità: 30,7 Mld - 505,4 euro p.c.
Vecchiaia: 226,6 Mld - 3.731,4 euro p.c.
Superstiti : 45,4 Mld - 747,5 euro p.c.

Sommando Malattie e invalidità, Vecchiaia e Superstiti otteniamo l'intera spesa per pensioni:
Spesa per pensioni: 302,7 Mld - 4.984,3 euro p.c.

Famiglia: 25,2 Mld - 414,4 euro p.c.
Disoccupazione: 19,5 Mld - 320,4 euro p.c.
Abitazioni: 0,7 Mld - 11,7 euro p.c.
Esclusione sociale n.e.c.: 4,4 Mld - 72,5 euro p.c.

Abbiamo quindi:
Altra spesa sociale (escluse pensioni): 49,9 Mld - 821,2 euro p.c.


Considerando soltanto le voci principali, possiamo riassumere questa situazione attraverso questo grafico a torta, ordinando le varie voci di spesa in ordine decrescente.



Il 37% della spesa pubblica è rappresentato da pensioni (per vecchiaia, superstiti, invalidità), il 51% della spesa è usato per le Pensioni e per la Sanità, sommando a queste la spesa per interessi si arriva al 60% della spesa pubblica totale.

Ma facciamo ora un confronto con gli altri paesi Ocse (utilizzando in questo caso i dati 2014, più completi).

In questo grafico, sempre secondo le diverse voci funzionali (Cofog), gli estremi inferiori e superiori delle barre rosse indicano il valore minimo e massimo della spesa, in % sul Pil, dei diversi paesi Ocse (Italia esclusa).
La linea gialla rappresenta le medie dei paesi Ocse.
La linea blu rappresenta invece i valori per l'Italia.
Le diverse voci funzionali sono ordinate secondo le medie Ocse.





E' evidente che l'Italia spende tantissimo in Pensioni (valore massimo all'interno dei paesi Ocse), e per gli Interessi (valore prossimo al massimo).
Molto bassa invece la Altra Spesa Sociale (escluse le pensioni) e la spesa per Istruzione (valore prossimo al minimo tra i paesi Ocse).

lunedì 20 febbraio 2017

La cicala e la formica

Tutti conoscono la favola della cicala e della formica, credo.
Bene, oggi vi raccontiamo la storia vera:

Dicono che la cicala pensasse solo a cantare e che non lavorava mai, ma non è vero niente.
La cicala lavorava, nessuno lo mette in dubbio, e quando c'era da divertirsi, si divertiva, tutto qui.
Però aveva una pessima abitudine, questo è vero:
non pensava all'inverno (della vita); o meglio, c'aveva pensato, ma a modo suo.
La formica lavorava, e accumulava provviste per l'inverno; la cicala no: lavorava e consumava, e al massimo, con quello che poteva risparmiare, acquistava immobili.
Quando venne l'inverno della vita, la cicala si presentò dal figlio della formica (anche l'anziana formica si era ormai ritirata per l'inverno) e gli disse: "Ora tu mi devi pagare una pensione: ho lavorato fino ad ora, è un mio diritto."
La giovane formica provò ad accennare una timida protesta, ma la cicala aggiunse imperativa:
"E se non ti va bene, ti manderò la pubblica sicurezza, i calabroni, che obbediscono solo a me".
La giovane formica dovette così cedere alla violenza.
Dovendo dare gran parte del frutto del suo lavoro alla cicala, alla formica restava ben poco, e per giunta, non potendo comprare casa, fu costretta ad andare in affitto... dalla cicala.


venerdì 10 febbraio 2017

Dall'altra parte del mondo.

Qualche giorno fa, ho letto su Facebook un interessante post, pubblicato da Rodolfo Nasini, tratto da questo articolo; riporta il post:

« "Il PIL procapite della Nuova Zelanda negli anni '50 era intorno al terzo posto al mondo, dietro Stati Uniti e Canada. Nel 1984, era precipitato al ventisettesimo posto, insieme a Portogallo e Turchia. La disoccupazione era sopra l'undici percento, si era fatto deficit per 23 anni di fila, a volte fino al 40 percento del PIL, il debito era al 65% del PIL, e il rating del debito stesso continuava ad essere abbassato. Il governo controllava interi settori dell'economia, c'era il controllo sui prezzi di una gran quantità di prodotti, le paghe erano congelate, nessuno poteva pagare o essere pagato più o meno di quanto stabilito dal governo. I sussidi all'industria sostenevano molti settori. I giovani emigravano in massa."
Vi ricorda qualcosa? Beh leggete la seconda parte perché a questo punto arriva l'uomo nero: L'AUSTERITA' (quella vera, non quella all'italiana):
"Il dipartimento dei trasporti passò da 5600 a 53 dipendenti. Il corpo forestale da 17.000 a DICIASSETTE." il ministero del lavoro, da cinquantaseimila a uno: il ministro. Ma i posti di lavoro non furono "persi". Vennero privatizzati. Abbiamo venduto Telecomunicazioni, compagnie aeree, compagnie assicurative,banche, ferrovie, hotels, compagnie navali, 35 agenzie governative vennero trasformate in aziende e fu loro detto che dovevano sopravvivere con le tariffe, sulle quali pagano tasse, senza alcun sostegno governativo. Costavano un miliardo l'anno, ora producono un miliardo l'anno in tasse sugli utili. I sostegni all'agricoltura sono stati aboliti.L'aliquota massima è passata dal 66 al 33 percento. La più bassa dal 38 al 19 percento. Si è introdotta una tassa di consumo del 10 percento e sono state abolite TUTTE le altre tasse: proprietà, licenze, capital gain, ecc.
Avevamo progettato il sistema affinché producesse gli stessi introiti di prima. Ci ritrovammo col 20 percento di surplus. Non avevamo tenuto conto della forte riduzione dell'evasione che ci sarebbe stata."
Oggi l'indice di libertà economica che negli anni '80 era sui livelli che oggi hanno Ucraina e Pakistan è diventato stabilmente il terzo al mondo, dietro solo ad Hong Kong e Singapore.
Oggi i giovani italiani emigrano in nuova Zelanda.
Non cambiate gli occhiali, è la realtà che è sbagliata.” »

La tesi è molto semplice e suggestiva: la Nuova Zelanda, tra gli anni ‘70 e gli anni’80, era in preda ad uno statalismo sfrenato (alta spesa pubblica, alto debito), come l’Italia - si lascia intuire -, e la sua economia si era fermata, come in Italia, oggi. Poi ha invertito la rotta, tornando ad una politica “liberale” e all'economia di mercato: tagliando spesa pubblica e debito, ed è tornata a crescere.
Quindi l’Italia dovrebbe seguire la stessa ricetta, per tornare a crescere.
Questa è più o meno la "ricetta liberale" che si legge un po' ovunque.
Ma perché non si fa, se è così semplice tornare a crescere?

Può aiutarci proprio il confronto tra Nuova Zelanda e Italia; suggestivo, anche solo per il fatto che la Nuova Zelanda si trova proprio “dall'altra parte del mondo”, rispetto all'Italia.
Vediamo quindi di approfondirlo.

Quello che vediamo qui sotto è l’andamento del Pil pro capite (a valori costanti e a parità di potere di acquisto) per Italia (IT) e Nuova Zelanda (NZ).


Come si può notare facilmente, in effetti, tra gli anni ‘70-’90, per circa un ventennio, in NZ si è registrata un crescita molto scarsa. E il pil pro capite è tornato a crescere solo agli inizi degli anni '90.
Nel grafico si nota anche il declino del pil pro capite italiano negli ultimi anni, ormai sceso al livello di quello neozelandese, sempre in crescita.
Sempre dallo stesso grafico, verrebbe però naturale la prima obiezione alla analisi e alla ricetta “liberale” dei problemi di Nuova Zelanda e Italia: l’Italia non ha certamente intrapreso una strada iperstatalista solo negli ultimi anni; aveva già iniziato negli anni '60 (ma forse fin dagli inizi della Repubblica). Eppure il pil pro capite italiano ha continuato a crescere, a ritmi elevati, almeno fino alla fine degli anni ‘90; è solo con l'ingresso nell'Euro che la nostra crescita ha iniziato a rallentare, per poi crollare con la crisi del 2008.
A questo punto quindi qualche “socialista” italiano, un po' "sovranista", potrebbe anche dire: “Ecco, vedete! La nostra "ricetta socialista" funzionava a meraviglia: ha creato benessere e ricchezza. Il problema è che non ce la fanno più usare”.
E la difesa del socialista sovranista, vista così, non è senza ragioni.

Ma per capire meglio dove sta la verità, proseguiamo con il confronto Italia/Nuova Zelanda.

La spesa pubblica italiana e neozelandese hanno avuto andamenti molto simili, ma quella italiana è sempre stata molto più elevata.



La spesa pubblica è cresciuta per entrambe tra gli anni ‘70 e ‘80, arrivando ad un massimo di quasi 48% per NZ nel 1991, e di quasi 58% per Italia nel 1993. Poi per entrambe è scesa, ma ad un ritmo più lento in Italia, toccando un minimo di 45,5% nel 2000, per poi tornare a crescere. Per NZ il minimo è stato raggiunto nel 2004 a 32,6%. Poi anche lì è tornata a crescere rapidamente, per scendere di nuovo dopo il 2008.



Per quanto riguarda le entrate, in Italia sono cresciute fino al massimo del 1993, quasi 48%. Per poi scendere fino al 2005 (minimo di 43%). Sono poi tornate a crescere fino al 48% più recente.
In NZ, raggiunto il massimo del 42% nel 1990, sono scese fin quasi al 34% nel 1999. Poi sono tornate a crescere fino al 2005, per poi scendere di nuovo. Recentemente si sono attestate al 34%, 14 pp sotto quelle italiane.




Il debito pubblico (sul Pil) in NZ era poco oltre il 60% a metà anni ‘80. Poi è sceso costantemente fino al minimo del 2007, al 15%. E’ tornato a crescere solo con la crisi mondiale, fino al 30%.
In Italia il debito pubblico, già molto elevato all'inizio della serie, ha continuato a crescere per tutti gli anni ‘80 e fino a metà anni ‘90. Fino ad un massimo del 120%. Poi è diminuito, ma molto lentamente, scendendo sotto il 100% nel 2007. Poi è tornato a crescere (anche per la diminuzione del Pil).

Cosa ha impedito all'Italia di seguire un cammino "virtuoso" come quello neozelandese?
Come abbiamo visto, il livello di spesa in Italia era già molto elevato, e anche se diminuito, è rimasto tale. Deve esserci stata quindi qualche “componente incomprimibile”.
Utilizzando varie fonti (anche se forse gli aggregati non sono sempre perfettamente sovrapponibili), facciamo un confronto più dettagliato per le varie componenti della spesa pubblica italiana e neozelandese:

La spesa per consumi finali ha avuto andamenti e livelli piuttosto simili in Italia e Nuova Zelanda.



Stessa cosa per la spesa per dipendenti (quella italiana era  superiore di 2 pp prima e ora è più alta di poco più di mezzo pp).



Anche la spesa per sanità non presenta grosse differenze: è cresciuta per entrambe dalla metà degli anni '90. E quella italiana è sempre stata più alta entro un punto percentuale.



Per quanto riguarda la spesa per istruzione, quella italiana, in calo da diverso tempo, è ormai più bassa di quella di NZ (circa 1,5 pp in meno).



Molto più elevata invece la spesa per interessi: a metà anni '90 quella italiana era superiore di circa 7 pp, e anche se diminuita successivamente è sempre rimasta ben al di sopra di quella neozelandese; attualmente è di circa 3 pp più alta.



Enorme la differenza nella spesa sociale, cresciuta di poco in NZ, esplosa invece in Italia, con una differenza attuale di 10 pp.


Tale differenza è dovuta principalmente al diverso andamento della spesa per pensioni.



Perché l’Italia non ha potuto seguire la "via virtuosa" della Nuova Zelanda?
Per due componenti fuori controllo: interessi e spesa pensionistica.
Nonostante gli avanzi primari accumulati dai primi anni ‘90, gli interessi pagati ogni anno erano troppo elevati per permetterci di ridurre progressivamente il debito come avvenuto in NZ. Ci si è accontentati di pagare, con quegli avanzi, parte degli interessi, ma facendo crescere continuamente il debito.
E se non si è potuto destinare maggiori risorse (fiscali) alla riduzione del debito, è perché non si è avuta la capacità - e volontà - politica di ridurre la spesa pensionistica.
Ancora una volta si conferma quanto già analizzato e detto molte volte: qui, qui e qui, ad esempio.

I problemi dell’Italia - se proprio si vogliono ricercare nella spesa pubblica - nascono nelle rapine di stato che hanno regalato miliardi a due tipologie di beneficiari: i possessori di debito pubblico e i pensionati retributivi.
Il “socialismo” italiano, quindi, ha sicuramente regalato benessere e ricchezza, ma soltanto a qualcuno; ma con quali conseguenze? Le abbiamo sotto gli occhi, ormai da quasi 10 anni.
Riguardo ai beneficiari, ... e a chi invece ne è stato danneggiato, potrebbero bastare queste immagini:






Il “socialismo” italiano, è stato un socialismo che ha arricchito le generazioni più anziane (lasciando ai più giovani solo debiti e tasse da pagare), e all'interno di queste, sicuramente, i (già) più ricchi.
Per usare un termine caro ai "liberali", è stato un socialismo..  straborghese.

La ricetta "liberale" potrebbe anche essere una ricetta valida, ma dovrebbe essere provata integralmente, partendo dalla riduzione delle pensioni.
Il problema è che in questa versione integrale non la vuole adottare nessuno.
Tanto meno i liberali.
Riuscite ad indovinarne il motivo?


domenica 5 febbraio 2017

La Rapina Pensionistica secondo l'Ocse

Cosa ne pensa l'Ocse (Oecd) della Rapina Pensionistica italiana?
Proviamo a chiederglielo.
O meglio, leggiamo quello che dice nell'ultimo rapporto Pensions at a Glance 2015, in particolare nella sintesi dedicata all'Italia.


Per interpretare correttamente quanto scritto, bisogna però "unire un po' di puntini"...

"In Italia, le pensioni pubbliche hanno assorbito 15.7% del PIL in media durante il periodo 2010-2015, il secondo valore più elevato tra i paesi OCSE."

"Le recenti riforme hanno migliorato la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, ma la spesa rimane elevata."

E questo l'abbiamo già visto in molte occasioni.



E da cosa deriva questa elevata spesa pensionistica?
Anche questo l'abbiamo già spiegato: per le generose condizioni del sistema retributivo.
L'invecchiamento della popolazione, da sola, non basta a spiegare la situazione italiana, visto che altri paesi con le stesse caratteristiche demografiche, non hanno gli stessi problemi.





Le condizioni generose del sistema retributivo italiano non riguardano tanto, o soltanto, il livello degli assegni mensili ricevuti, ma piuttosto la possibilità di andare in pensione molto presto, e senza penalizzazioni su quanto ricevuto.
In questo senso, questo grafico è molto eloquente.


E vediamo anche quest'altri (ricavati da altri datiOecd) per il pensionamento di uomini e donne, confrontate con i valori degli altri paesi, non solo con la media Oecd.



Come si nota, l'età di pensionamento italiana è sempre stata prossima ai valori minimi.

Tale generosità è andata senz'altro a vantaggio dei più anziani:

"Ad oggi, il sistema di previdenza sociale ha svolto un ruolo importante nel proteggere gli anziani dal rischio di povertà assicurando loro delle buone condizioni di vita rispetto ad altri gruppi di età. Oggi in Italia, 9.3% degli ultrasessantacinquenni vivono in situazione di povertà relativa, rispetto al 12.6%% nella popolazione totale. Le persone anziane hanno un reddito medio superiore al 95% di quello della media nazionale.



Ma ad una elevata spesa pensionistica, corrisponde ovviamente una elevata contribuzione per finanziare tale spesa. Infatti l'Oecd dice:

"Per una gran parte dei dipendenti del settore privato i contributi previdenziali sono i secondi più elevati dell’OCSE pari al 33% del salario (23,8% a carico dei datori di lavoro e 9,2% dei lavoratori). Ne risulta che, l'Italia ha le entrate contributive più elevate (in percentuale del PIL) dell’OCSE dopo la Grecia e la Spagna, entrate che sono necessarie per pagare le pensioni correnti."

E a dirla tutta, questi elevati contributi rappresentano solo una parte del finanziamento della spesa pensionistica. Buona parte viene finanziata da tasse. Una ulteriore "contribuzione" che, come abbiamo spiegato qui, pur rappresentando un ulteriore sacrificio oggi per gli attuali lavoratori, non diventeranno pensioni domani. Una truffa nella truffa.

La generosità delle pensioni, quindi, a fronte del sacrificio richiesto ai lavoratori ha avuto importanti effetti redistributivi.

"Il rischio di povertà si è trasferito nel tempo dagli anziani ai giovani: circa il 15% delle persone di età compresa tra i 18 e i 25 anni sono povere (con la povertà definita come la percentuale di persone con redditi al di sotto della metà del reddito mediano equivalente delle famiglie) rispetto al 9% per gli ultrasessantacinquenni."

Il brutto è che questi enormi sacrifici richiesti ai lavoratori italiani, per pagare le elevate pensioni, non porterà nemmeno a pensioni decenti. Ce lo dice lo stesso report dell' Oecd.

Cosa si è fatto infatti per ridurre la spesa pensionistica italiana? Nel breve periodo, nulla. Altrimenti avremmo anche noi una spesa pensionistica simile a quella di altri paesi.
Si è intervenuti, ma nel lungo periodo, con il passaggio al contributivo.
"In Italia, il sistema pensionistico pubblico si sta conformando ad un sistema pienamente contributivo"

ma proprio questo passaggio, insieme ad alcune recenti modifiche, metterà a rischio il livello delle future pensioni.

"Il passaggio ad un sistema di tipo contributivo nozionale è stato accompagnato dall'eliminazione della pensione integrata al minimo lasciando unicamente una prestazione assistenziale come rete di sicurezza per i pensionati futuri. Il valore della rete di sicurezza è relativamente basso: gli individui senza contributi previdenziali riceveranno il 19% del salario medio rispetto al 22% in media nei paesi OCSE."

"Una proporzione crescente di lavoratori è confrontato a periodi disoccupazione o al lavoro part-time o precario. Data l’esistenza di uno stretto nesso tra contributi previdenziali e prestazioni pensionistiche, l’effetto di interruzioni contributive avrà un effetto più marcato sulle prestazioni pensionistiche del futuro, con un effetto negativo sull’adeguatezza dei redditi pensionistici e contribuendo possibilmente all’aumento della povertà degli anziani nel futuro."

"L’effetto di interruzioni di carriera e di ritardi nell’entrata sul mercato del lavoro potrebbe essere più elevato in Italia che nei paesi OCSE in media. Nonostante la presenza di alcuni meccanismi che permettono di ridurre in parte l’effetto di carriere interrotte (come l’aumento dei coefficienti di trasformazione per le donne con figli e i contributi versati durante i periodi di disoccupazione) in Italia mancano degli ammortizzatori efficaci che proteggano la pensione dall’effetto di interruzione di carriera."



E leggiamo questo, che spiega la questione in maniera ancora più chiara:

"I periodi di assenza dal lavoro per motivi familiari sono fortemente concentrati sulle donne: il dodici per cento delle donne tra i 25 e i 49 anni rispetto a meno dell'1% degli uomini della stessa età. Tra i giovani, periodi di disoccupazione o d’inattività sono frequenti: circa un quarto dei giovani 16-29 sono né occupati né coinvolti nel sistema educativo o in formazione. Inoltre, le giovani donne cominciano il lavoro retribuito più di due anni più tardi rispetto agli uomini, i tassi di occupazione delle madri sono bassi e molte donne lavorano part-time.
Queste caratteristiche possono danneggiare l'adeguatezza dei redditi pensionistici nel futuro. Poiché nel sistema pensionistico riformato, il nesso tra contributi previdenziali e le prestazioni ricevute durante il pensionamento è molto stretto, i “buchi” contributivi influenzano direttamente e in modo negativo i redditi da pensione. Il livello delle prestazioni assistenziali a partire dai 65 anni è basso (pari al 19% della retribuzione media). Allo stesso tempo, gli ammortizzatori esistenti per proteggere gli individui con carriere più corte potrebbero essere insufficienti ad evitare il rischio di povertà. L’Italia registra una delle maggiori riduzioni della pensione futura in seguito di un periodo di 5 anni di assenza dal lavoro retribuito per ragioni di cura dei figli o di disoccupazione (con la Germania, Israele, l’Islanda, il Messico e il Portogallo), mentre le pensioni non subiscono alcuna riduzione in queste circostanze in quasi un terzo dei paesi dell'OCSE. Nel caso dei lavoratori a basso reddito, la decurtazione della pensione sarà del 10%, nel caso di un ingresso sul mercato del lavoro ritardato di 5 anni, rispetto al 3% in media nell'OCSE. Perdite simili si riportano per le interruzioni legate alla cura dei figli e alla disoccupazione.
Mentre l'aumento dell'età pensionabile e il più stretto legame tra contributi e reddito da pensione hanno senza dubbio rafforzato la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, l'obiettivo finale da un punto di vista sociale ed economico deve essere quello di promuovere carriere complete e di maggior durata. A tal fine, è importante promuovere opportunità per tutti di avere accesso al mercato del lavoro ma anche una maggiore flessibilità di scelta nella divisione del tempo tra il lavoro, la cura dei figli e dei familiari, il tempo libero e l’apprendimento. Le azioni per promuovere un migliore equilibrio tra lavoro e vita familiare e per ridurre le disuguaglianze nel mercato del lavoro vanno dunque ben oltre le politiche pensionistiche.
Migliorare la conoscenza degli individui in merito alla loro pensione attesa e alle alternative fonti di reddito da pensione disponibili può essere anch’esso un elemento importante per aiutare a costruire delle pensioni più adeguate nel futuro."

In conclusione

"L’adeguatezza dei redditi pensionistici può essere un problema per i futuri pensionati, nonostante l'elevata spesa pensionistica pubblica. Il design del contributivo nozionale e l'aumento della speranza di vita, se affiancati a una modesta crescita del PIL e dell'occupazione, potrebbero avere un effetto negativo significativo sulle prospettive dei pensionati futuri. Le persone con storie contributive relativamente brevi e / o senza prodotti di risparmio alternativi potrebbero essere esposti al rischio di povertà durante il pensionamento. Le regole per l'accesso al pensionamento non anticipato sono severe (20 anni almeno di contributi previdenziali che risultino in una pensione attesa superiori a 1,5 volte l’assegno sociale). I lavoratori che non raggiungano tali condizioni minime avranno unicamente accesso alla prestazione assistenziale (l’assegno sociale), molto contenuta, durante il pensionamento. I lavoratori più esposti al rischio di una carriera instabile o a bassa remunerazione e in lavori precari corrono il rischio di non riuscire a soddisfare i requisiti minimi per la pensione contributiva anche a fronte di anni di contributi elevati. Le condizioni di accesso al trattamento pensionistico (anzianità contributiva e pensione attesa minima) dovrebbero dunque essere migliorate.
Le politiche che migliorino le condizioni del mercato del lavoro e che permettano di creare posti di lavoro, e in particolare opportunità di lavoro più produttive e con migliori remunerazioni, sono essenziali per garantire l'adeguatezza delle pensioni per le generazioni future. La formazione professionale, il miglioramento e aggiornamento delle qualifiche e competenze dei lavoratori nel corso della vita lavorativa e politiche che permettano una maggiore flessibilità alla fine delle carriere sono particolarmente importanti. Migliorare l’accesso e qualità dei servizi di cura (bambini, anziani) e di buona qualità è ugualmente fondamentale per promuovere carriere più stabili, specialmente per le donne. La recente riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) affronta alcune delle criticità del mercato del lavoro italiano: dalla creazione di una nuova tipologia contrattuale a tutele crescenti che può contribuire a ridurre la profonda segmentazione tra contratti temporanei e spesso precari e quelli a durata indefinita; all’universalizzazione dei sussidi di disoccupazione allo sforzo di migliorare le politiche attive per il re-inserimento dei disoccupati sul lavoro. Da questo punto di vista, la riforma del lavoro potrà anche migliorare la stabilità delle carriere e al tempo così da migliorare le prospettive di pensione dei lavoratori più vulnerabili. Occorre anche riconsiderare le differenze nelle prestazioni pensionistiche dei lavoratori d’imprese di dimensioni diverse o con diversi contratti di lavoro (come ad esempio quelli precari o atipici) derivanti anche da differenze nei contributi previdenziali versati. Il provvedimento recente che permette di ottenere una parte del TFR maturato come stipendio può contribuire a sostenere i consumi nel breve termine, ma può contribuire sia all'impoverimento dei pensionati nel lungo termine che a un ulteriore indebolimento delle pensioni private. Lo stesso effetto può derivare dall’aumento delle tasse sui fondi pensione da 11,5 a 20%.

Da notare un ultimo fatto: per rendere sostenibile la spesa pensionistica, oltre all'introduzione del sistema contributivo, si è fatta un'unica cosa. Alzare l'età pensionabile.
Se, come abbiamo visto, nel passato i pensionati italiani potevano godere di età di pensionamento molto basse, in futuro queste diventeranno non solo più alte, ma più alte di molti altri paesi.
Come si può vedere da questo grafico.



E questa si riferisce SOLO all'età "legale". Come più volte evidenziato negli allarmi di Boeri, il rischio è che molti futuri pensionati, per arrivare ad un "minimo" (legale) di pensione, saranno costretti a posticipare l'età di pensionamento ben oltre i 70 anni, forse fino ai 75 anni.

Questo, indipendentemente dai livelli degli assegni pensionistici futuri, significa solo una cosa: una minor ricchezza pensionistica incassata, a fronte degli elevatissimi contributi versati.

Questo ci spiega l'Ocse. Se non volete credere a me, credete a quanto dicono loro.