giovedì 19 luglio 2018

Lettere sospese

Questo blog è nato - qualche tempo fa - con uno scopo preciso: sensibilizzare chi ha potere su alcuni problemi che giudico fondamentali.
I miei articoli, quindi, sono sempre state vere e proprie lettere, regolarmente inviate alle istituzioni, ai parlamentari e agli organi di informazione.
Le mie lettere non hanno avuto alcuna risposta.

L'anno scorso, tra giugno e luglio, ho anche deciso di intensificare i miei sforzi, scrivendo ai Presidenti della Repubblica, di Camera e Senato quasi una lettera al giorno.
Anche in questo caso, senza alcuna risposta.

Ho quindi deciso di sospendere le mie lettere.

Era del tutto evidente che dall'altra parte non c'era alcuna volontà di ascolto, nessun interesse.

Avrei magari aspettato una nuova Legislatura e un nuovo Governo.
Ed eccoli qui, dopo molte difficoltà.

E' ora quindi di riprendere i miei scritti, nel tentativo di smuovere questo muro di gomma che forma l'opinione pubblica, e soprattutto, quella di chi ha potere.

Ma prima, voglio pubblicare le lettere spedite la scorsa estate ai Presidenti... giusto per riprendere qualche argomento importante.

Buona Lettura
(dato che sono molte... magari un po' per volta)

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21 giugno 2017

Gent.le Sig. Mattarella, ho già scritto diverse volte alla Presidenza della Repubblica, negli ultimi mesi, negli ultimi anni, e senza mai avere alcuna risposta. E ho scritto diverse volte anche alla Presidenza precedente, quasi con gli stessi risultati.
Certo la cosa dovrebbe ormai avermi fatto comprende quale reale interesse abbiano le maggiori Cariche dello Stato per i problemi dei suoi cittadini e più in generale per i problemi del Paese, e dovrebbe avermi convinto che è del tutto inutile continuare per questa strada. Al contrario, ho deciso di intensificare i miei sforzi: da oggi cercherò di scriverò al Quirinale una lettera al giorno, e lo stesso farò con la Presidenza di Camera e Senato; e ogni lettera verrà girata ai principali organi di stampa.
Il motivo della mia insistenza? vi sono alcuni problemi che devono essere risolti, e al più presto.
Per questi problemi, negli ultimi tempi, sono anche diventato un disobbediente, ho smesso di pagare le tasse, per protesta; e ora mi trovo probabilmente costretto a chiudere l'attività che ho aperto qualche anno fa: senza alcuna risposta dalla politica, rischio solo di avere problemi ben maggiori e che qualcuno venga un giorno a suonare alla mia porta per chiedermi di render conto di redditi non conseguiti.
Ma partiamo dall'inizio, ovvero dalla mia vicenda personale; sarò breve, perché dovreste già conoscerla ampiamente:
Fino a qualche anno fa lavoravo come dipendente in una azienda; sono stato licenziato per ragioni politiche e antisindacali, e con l'aiuto di qualche sindacato. Il tutto, realizzato violando regole sindacali, norme contrattuali, leggi dello stato.
E' possibile una cosa del genere? Possono i sindacati operare come una comune associazione a delinquere, e senza conseguenze? pare proprio di sì.
Questa è solo una vicenda personale, ma è un chiaro esempio di un problema più generale: il sistema sindacale italiano.
A questo dobbiamo lo scarso potere contrattuale dei dipendenti, le alte tasse, gli alti contributi, i bassi salari, etc..
La soluzione è una sola: abolire questo sistema, o quantomeno ridurre fortemente il potere "criminale" di questi sindacati.
Per avere una libertà di associazione vera, per un vero pluralismo, per una vera libertà sindacale; per il bene dei lavoratori.
E' una questione di diritto e di giustizia.
E a proposito di diritto e di giustizia, passo ad un altro problema: la Rapina Pensionistica.
Molti si lamentano dell'alta spesa pubblica italiana e delle alte tasse, e queste derivano da due "anomalie" principali: l'alta spesa per interessi (per l'alto debito pubblico, nonostante i 'risparmi' degli ultimi anni) e l'alta spesa pensionistica. Debito esplicito, e debito implicito. A questo dobbiamo la tassazione che soffoca le imprese e i lavoratori, e li costringe a scappare all'estero.
Diciamolo chiaramente: una, due generazioni hanno deciso di vivere sulle spalle di quelle successive, dei più giovani. Ma è una cosa che deve finire.
Non è più sostenibile. L'alta spesa pensionistica, in particolare, si deve alle generosissime condizioni del sistema retributivo, mai toccato realmente. Qui la soluzione sarebbe molto semplice: tagliare le pensioni, ricalcolando le pensioni retributive con il metodo contributivo. In molti hanno già provato a stimare i possibili risparmi: 50 miliardi. E' un inizio, per risarcire le nuove generazione di tutto quello che hanno subito fino ad ora per la bulimia di questa gerontocrazia italiana.

Per oggi mi fermo qui. A domani

Cordialmente

Michele Liati



22 giugno 2017 – Sulla Rapina Pensionistica

Gent.le Sig. Mattarella, come le ho annunciato ieri, d'ora in avanti le scriverò una lettera al giorno, sperando che lei si decida a rispondermi prima o poi.
Ieri le ho parlato del problema pensionistico; vorrei riprendere l'argomento, visto che proprio ieri Istat ha pubblicato un interessante rapporto sulla redistribuzione del reddito conseguente all'intervento pubblico. Ovviamente gran parte di questa redistribuzione opera attraverso le pensioni. La questione interessante è che Istat fa notare che per i più giovani, tra trasferimenti e prelievi contributivi e fiscali, il rischio povertà aumenta, e di molto: dal 20,4 al 25,1% per gli individui fino a 14 anni, dal 19,7 al 25,3% per i giovani tra 15-24 anni, dal 17,9 al 20,2% per i giovani tra 25-34 anni (e un peggioramento quasi identico si ha anche per la fascia tra 35-44 anni). Con qualche facile conto si trova che la redistribuzione statale AUMENTA, tra i più giovani, il numero di persone a rischio povertà di oltre un milione. E questo di sicuro non per aiutare solo gli anziani più poveri: i redditi pensionistici superiori ai 2 mila euro al mese, in Italia, sono quasi il 25% del totale, mentre in Germania raggiungono solo l'1%.
Questa redistribuzione dai poveri ai 'già ricchi' non è più tollerabile.

Cordialmente

Michele Liati



24 giugno 2017 – Sulla Libertà del lavoro

Gent. Sig. Mattarella, questa è la mia terza lettera, di molte che le scriverò, temo.
Oggi le voglio raccontare la mia vicenda sindacale.
La Presidenza della Repubblica dovrebbe già conoscerla abbondantemente, ma è bene ripeterla, perché testimonia perfettamente cosa sia, oggi, il sistema sindacale.
Fino a qualche anno fa, lavoravo come dipendente per una azienda meccanica della provincia di Varese. Con un contratto a tempo indeterminato (un posto “intoccabile”, secondo l'opinione di molti).
Non ho mai avuto molta simpatia per i sindacati, ma li ho sempre tenuti alla debita distanza. Quando è arrivata la crisi, però, mi sono reso conto che quelli presenti nella nostra azienda erano del tutto incapaci di rappresentare gli interessi dei dipendenti in un momento così difficile.
E non ero l'unico a pensarla così. Che fare? Mi informai riguardo alle 'regole del gioco', e decisi di provare a far valere i miei diritti.
Organizzai una raccolta firme per far decadere le RSU aziendali - come prevedevano allora le regole sindacali - e andare a nuove elezioni.
La raccolta firme ebbe successo, ovvero più della metà dei dipendenti totali decise di sottoscriverla (e si parla di circa 200 dipendenti), a dimostrazione che non ero l'unico ad essere poco soddisfatto.
Le RSU erano quindi di fatto decadute, e si dovevano organizzare nuove elezioni.
Purtroppo non avevo fatto i conti con l' “interpretazione” delle regole sindacali da parte dei sindacati stessi.
Le regole sindacali, infatti, non sono né leggi né norme: chi le deve e può applicare e far rispettare? Quali conseguenze ci sono se qualcuno non le rispetta? Forse nessuna. E a chi denunciare chi non le rispetta?
I sindacati presenti in azienda, infatti, della raccolta firme se ne infischiarono, e si rifiutarono di far decadere le RSU.
In compenso, pochi giorni dopo la petizione da me organizzata, mi ritrovai in cassa integrazione. Cassa integrazione che non era giustificata IN NESSUN MODO da esigenze produttive, ma fatta, evidentemente solo a scopo punitivo e discriminatorio.
Per giunta, tale cassa integrazione ad personam (prima ordinaria, poi straordinaria), essendo attuata senza alcuna rotazione, violava una precisa Legge dello stato, pensata proprio per evitare comportamenti discriminatori.
Questa pratica irregolare, adottata nei miei confronti, venne più volte denunciata alla Direzione Provinciale del Lavoro, senza alcun risultato.
Le RSU, come dicevamo, restarono al loro posto.  E giunta anche la scadenza naturale del loro mandato, nessun sindacato convocò nuove elezioni. Anzi, le RSU sfiduciate (dalla raccolta firme) e ormai decadute (per la naturale scadenza del mandato) firmarono addirittura la cassa integrazione straordinaria.
Le elezioni vennero organizzare solo mesi dopo; proprio in quel momento, l'azienda mi inviò una lettera in cui mi si vietava di entrare per qualunque motivo in azienda. Impossibile quindi fare 'campagna elettorale'.Ciononostante, con l'aiuto di qualche 'interno', riuscii a presentare comunque una lista. La lista non ottenne i voti necessari, un po' per il meccanismo di voto che all'epoca assegnava un terzo delle rsu "di diritto" ai “sindacati firmatari di contratti nazionali”, e quindi, di fatto ai maggiori sindacati, un po' perché molti (me lo dissero chiaramente) "non volevano fare la mia stessa fine".
Utilizzando di nuovo le regole sindacali, feci ricorso. La commissione elettorale interna mi diede ragione: Le elezioni dovevano essere rifatte. Ma il verbale della decisione SCOMPARVE NEL NULLA. Venne consegnato (non si sa perché) al responsabile del personale dell'azienda - per la cronaca, figlio di un dirigente provinciale della Fiom - e sparì.
Di nuovo seguii le regole, e presentai appello al Comitato dei Garanti presso la Direzione Provinciale del Lavoro. I "Garanti" mi diedero torto; Su quali basi? Perché non si può accogliere un “appello” riguardo ad una decisione che non c'è, visto che il verbale era sparito.
Così rimasi fuori dalla RSU, e fuori dall'azienda.
Qualche mese dopo, venni anche licenziato. Ovviamente non senza conseguenze per l'azienda, perché il loro comportamento portò ad una causa per mobbing.
E' giusto tutto questo? Ho solo cercato di difendere i miei diritti ed esercitare quella libertà sindacale sancita dalla Costituzione, nel pieno rispetto delle regole e delle leggi. I sindacati hanno violato le regole in qualunque modo e mi hanno fatto perdere il lavoro.
La carta costituzionale prevede che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, evidentemente questo principio non vale per i sindacati, che sono al di sopra e aldilà della legge. Quello che ancora non sono riuscito a fare infatti è proprio portare in tribunale i sindacati, i veri protagonisti e responsabili di questa vicenda criminale.
Ma questa è un'altra storia, che vi racconterò prossimamente.

Cordialmente

Michele Liati



25 giugno 2017 – Un sindacato al di sopra e aldilà della Legge.

Gent. Sig. Mattarella,  ieri le ho ricordato la mia vicenda sindacale; oggi vorrei spiegarle brevemente quanto fatto per cercare di risolvere il problema sindacale.
Non ho mai voluto dare pubblicità (nel senso letterale del termine) alla mia vicenda personale; per il semplice motivo che non lo ritengo un caso eccezionale, sicuramente ingiusto ma comunque anomalo, all'interno di un sistema equo ed efficiente. È stato piuttosto un caso esemplare di un sistema sindacale che non solo non rappresenta più efficacemente gli interessi dei lavoratori, ma li danneggia, e impedisce, anche con la violenza, che qualcuno di essi provi a riprendersi i propri diritti di contrattazione e rappresentanza.  Per questo ho cercato di combattere il sistema sindacale nella sua sostanza.
Certo, partire dalla mia vicenda avrebbe permesso e permetterebbe forse di scardinare un potere criminale ormai quasi intoccabile.
L'articolo 24 della Costituzione, ricordato già ieri, afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Io ritengo di essere stato gravemente danneggiato dai sindacati, ritengo che abbiano violato i miei diritti e legittimi interessi. Eppure non è stato possibile far valere questo principio, per loro. Non pochi avvocati mi hanno dissuaso dal poter intraprendere una qualsiasi azione di questo tipo. Mi sono interrogato sull'origine di questa particolare “tutela” spettante ai sindacati, e credo di averla rilevata in gravissime lacune del nostro sistema giuridico.
Prendiamo ad esempio lo Statuto dei Lavoratori; lì si parla di condotta antisindacale, e di come tali comportamenti scorretti possano essere repressi. Ma per lo Statuto dei Lavoratori la condotta antisindacale è sempre e soltanto quella delle imprese; non è nemmeno previsto che un sindacato possa tenere comportamenti antisindacali nei confronti di un altro sindacato, o addirittura di singoli lavoratori. E se non esiste il 'reato' non può certo esistere il modo per reprimerlo.
Inoltre solo ai sindacati è consentito denunciare una condotta antisindacale, ai singolo lavoratore che magari la subisce, no. Diciamolo, lo Statuto dei Lavoratori, nella pratica, è una legge che tutela e protegge solo le Organizzazioni Sindacali, non i diritti dei singoli lavoratori. E questo è solo un esempio.
Più grave ancora il fatto che i contratti e le varie regole sindacali, dato il loro carattere “collettivo”, sebbene possano avere, erga omnes, valore obbligatorio per tutto un gruppo di lavoratori (quindi con un potere quasi-di-legge), tuttavia non costituiscono norme o leggi vere e proprie, quindi non è possibile denunciare un sindacato perché ha violato una regola sindacale o contrattuale. A chi? E chi dovrebbe giudicarli? E su quali basi?
Infine, cosa ancora più grave, sebbene questo sistema contenga elementi palesemente anticostituzionali, è impossibile, e persino improprio, pensare di correggerlo in tal senso.
Solo atti aventi forza di legge possono essere incostituzionali, di sicuro non contratti collettivi.
Il “diritto” sindacale rappresenta quindi oggi una “zona grigia” tra diritto privato e diritto pubblico, al di sopra e aldilà della Legge, che fornisce ai sindacati un potere enorme, anche a danno degli interessi dei lavoratori.
Al termine della mia vicenda sindacale, vista l'impossibilità di portare i sindacati in tribunale, ho provato a sensibilizzare le istituzioni su questo problema, addirittura con una corsa di protesta da Milano a Roma, compiuta nell'ottobre 2011.
C'era ancora Napolitano al Quirinale, Berlusconi a Palazzo Chigi, Fini alla Presidenza della Camera e Schifani al Senato. Sembra un secolo fa. Scrissi a tutti loro, e da loro non ebbi nessuna risposta. O quasi: credo che la Presidenza della Repubblica girò le mie lamentele, e la mia vicenda, al Ministero del Lavoro, il quale mi rispose che le mie erano “solo opinioni politiche” e che nella mia vicenda “non era stato ravvisato nulla di irregolare”, se ben ricordo.
Tornato a casa dalla mia “passeggiata” a Roma, visto che per le Istituzioni ero ovviamente un signor Nessuno, decisi di comportarmi di conseguenza: mi rifiutai prima di tutto di compilare e consegnare il Censimento per la mia famiglia; in seguito, mi rifiutai di pagare qualunque tassa, imposta o gabella.
In questo caso, difendo il mio diritto alla disobbedienza; diritto spesso trattato anche da importanti costituzionalisti, ma ad oggi, rimasto solo una ipotesi astratta. Quando i poteri pubblici danneggiano i diritti naturali, costituzionali, fondamentali e inviolabili di qualche cittadino, e non sembra esistere una strada 'politica' o 'legale' affinché il cittadino possa avere giustizia, le pretese statali non hanno più alcuna legittimità; lo stato diventa solo una associazione a delinquere qualsiasi, anzi, la più pericolosa. E di fronte ad una associazione criminale un uomo ha solo due alternative: sottomettersi o ribellarsi. Io ho scelto la seconda strada.

Cordialmente

Michele Liati



28 giugno 2017 – Il problema sindacale

Gent. Sig. Mattarella, nelle mie ultime lettere le ho ricordato la mia vicenda personale, nella quale ho perso il lavoro 'grazie' al fondamentale contributo dei sindacali; ho inoltre spiegato in che modo, oggi, il sistema sindacale italiano costituisca un serio pericolo per la libertà e gli interessi del singolo lavoratore. Oggi vorrei analizzare brevemente le conseguenze di questa situazione, a partire dalla già ricordata Rapina Pensionistica.
Il problema sindacale e quello della Rapina Pensionistica sono infatti strettamente legati. Non solo perché uno ha determinato l'altro, ma perché il secondo è la chiara dimostrazione del primo.
Se esistesse in Italia una vera libertà sindacale, ogni gruppo di interessi omogenei dovrebbe potersi scegliere liberamente la propria rappresentanza. Pensionati e lavoratori, allora, dovrebbero forse "scontrarsi nelle piazze", oltre che sui tavoli di contrattazione, perché hanno interessi evidentemente contrapposti: i primi desiderano avere pensioni alte, i secondi, che pagano quelle pensioni, pagare bassi contributi. Questo 'scontro' invece è stato risolto nelle segreterie dei sindacati, e di qualche partito. Ed è ben evidente quale interesse sia stato considerato prevalente:
Negli ultimi anni l'Italia ha sempre avuto la spesa pensionistica (su Pil) più alta al mondo, e, di conseguenza, sui lavoratori italiani ricade il sacrificio più gravoso per finanziarla (tra contributi e tasse).
Sempre ai sindacati, come ai partiti, dobbiamo la creazione del nostro enorme debito pubblico, conseguente alla scelta di aumentare la spesa pubblica degli anni '70 e '80 trasferendone però il costo alle generazioni future.
Questo sistema sindacale inoltre non è nemmeno in grado, nonostante la sua incontestata forza, di difendere il potere di acquisto dei salari: secondo l' Oecd la retribuzione media lorda italiana nel 2016 (in dollari in parità di potere d'acquisto) è stata di 42.166 dollari; a questa retribuzione lorda corrisponde,  per un lavoratore solo, senza famiglia, (considerato il nostro cuneo fiscale) una retribuzione NETTA di 29.045 dollari PPP; la media Ocse era invece di 31.600 dollari, 2.600 dollari più alta che in Italia. In Spagna è stata di quasi 31.700 dollari, + 2.600 rispetto all'Italia. In Francia è stata di 33.900 dollari, quasi 5 mila dollari superiore a quella italiana. In Germania di 37.300 dollari, + 8.200. Negli Stati Uniti di 38.900 dollari, quasi 10 mila dollari superiore all'Italia. Nel Regno Unito quasi 12 mila euro più alta, 40.646 dollari. In Svizzera +29.200 dollari (58.300 dollari). In pratica, più del doppio rispetto all'Italia.
Ma il problema ancor più grave è quello della mancata crescita; certo i sindacati non hanno un potere diretto su questo fenomeno, ma è ben evidente quale forte ruolo possano giocare, e hanno giocato, nel favorire una certa 'politica industriale'. Le scelte fatte sono risultate del tutto fallimentari; i risultati li vediamo con i nostri occhi.
I maggiori problemi del nostro paese e della nostra economia, quindi, sono legati al problema sindacale. E potranno essere risolti soltanto quando si sarà risolto questo problema: come? restituendo una piena libertà di contrattazione e di rappresentanza ai legittimi proprietari di questi diritti, i lavoratori.

Cordialmente

Michele Liati



30 giugno 2017 – Un paese per vecchi.

Gent. Sig. Mattarella, una parte sempre più ampia della popolazione e dell'opinione pubblica si è ormai accorta di quale sia il problema fondamentale del nostro paese: l'Italia è un paese per vecchi. Solo la politica sembra non accorgersene.
Da qualche tempo è in discussione alla Camera dei Deputati - più precisamente in Commissione Affari Costituzionali - un progetto di modifica dell'articolo 38 della Costituzione "per assicurare l'equità intergenerazionale dei trattamenti previdenziali e assistenziali" (tentativo lodevole, ma che credo probabilmente del tutto inutile).
Proprio due giorni fa, si è tenuta presso questa Commissione, una Audizione Informale del Presidente dell'INPS, Tito Boeri, il quale ha presentato dati inequivocabili sulla “discriminazione tra generazioni” anche all'interno del nostro sistema di welfare: negli ultimi anni la povertà è cresciuta molto tra la popolazione più giovane, mentre è rimasta costante per i più anziani; oggi, gli over 65, “protetti” dalle pensioni e da altre prestazioni sociali, registrano la percentuale più bassa di povertà assoluta: il 4%, contro l'8% della media nazionale e l'11% delle classi più giovani.
L'80% della Spesa Sociale – ha riferito Boeri – finisce a persone con oltre 65 anni. Quella per la popolazione fino a 39 anni non raggiunge nemmeno il 5%.
Questa forte sperequazione rimane anche escludendo dalla spesa sociale le prestazioni pensionistiche: solo un 26% finisce alla popolazione fino a 39 anni; il 40% è destinata alla popolazione con più di 60 anni.
Persino le prestazioni sociali destinate alla famiglia e per combattere la disoccupazione si concentrano nelle classi più adulte, lasciando quasi completamente esclusi i più giovani.
Da questi dati poi, che considerano solo le prestazioni 'governate' dall'INPS, è esclusa la spesa sanitaria, che, per ovvie ragioni, è destinata in larga parte ai più anziani.
Abbiamo già detto, nelle lettere precedenti, dell'elevata spesa pensionistica, che ci pone ai vertici mondiali. Per contro, dobbiamo ancora dire della spesa per istruzione italiana, tra le più basse tra i paesi Oecd.
E' evidente che manca la volontà, sopratutto politica - di risolvere i problemi dei giovani, perché vorrebbe dire – dobbiamo dirlo onestamente – combattere i molti privilegi della popolazione più anziana, quella che ha lasciato ai più giovani solo tasse e debiti.

Cordialmente

Michele Liati



2 luglio 2017 – una rapina nella rapina

Gent. Sig. Mattarella, nelle mie lettere precedenti ho più volte accennato al problema della Rapina Pensionistica; dico solo accennato, perché la questione richiederebbe una analisi ben più complessa. Oggi, però, vorrei discutere di un aspetto del problema poco dibattuto: di un truffa all'interno della stessa rapina pensionistica.
Sappiamo che l'elevata spesa per pensioni è pagata dai contributi dei lavoratori, e questo porta alle altissime aliquote contributive italiane; ma questo è vero solo in parte: parte della spesa è coperta dalla fiscalità generale, ovvero dalle tasse dei contribuenti.
Attualmente sono circa 100 i miliardi della fiscalità generale impiegati a questo scopo (o forse, considerando più correttamente solo la spesa netta, sottraendo quindi le imposte pagate dagli stessi pensionati che altro non sono, per lo stato, che partite di giro, circa 50-60 miliardi).
Si potrebbe pensare che questa 'collaborazione' della fiscalità generale al finanziamento della spesa pensionistica comporti un alleggerimento del carico fiscale/contributivo per i lavoratori, o almeno su certo gruppi sociali, in parte perché queste tasse/imposte ricadono sugli stessi pensionati (non se consideriamo, come detto, la spesa netta), in parte perché, data la progressività della fiscalità non contributiva, si può pensare che questo onere ricada maggiormente sui redditi più alti.
In realtà, io ritengo che questo sistema nasconda motivazioni ben poco lodevoli, anzi, una vera e propria truffa.
Queste tasse, che comunque versano i lavoratori attraverso imposizioni diverse, non hanno carattere 'contributivo', per cui non rappresenteranno in futuro 'diritti previdenziali'; in poche parole, con questo sistema si possono pagare le pensioni attuali riducendo quelle future; un bene per i conti pubblici, sicuramente, ma non per i futuri pensionati che dopo i notevoli sacrifici fiscali fatti rischieranno di avere pensioni ben ridotte.
Ma vi è un'altra truffa nascosta tra le pieghe della legge e dei bilanci dell'Inps, che ha operato per oltre vent'anni.
Per lungo tempo, gli avanzi della Gestione Prestazioni Temporanee (grazie all'art.21 della legge 88/89) sono stati utilizzati per pagare le pensioni del Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, arrivando ad accumulare, fino al 2008, un credito/debito di 150 miliardi. I contributi pagati per disoccupazione, malattia, maternità, etc sono stati quindi utilizzati per le pensioni.
Anche in questo caso, è ben evidente, si sarebbe potuto ridurre questi contributi, aumentando quelli previdenziali (non ci sarebbe stata alcuna differenza nel prelievo totale); con questo sistema invece, si potrà risparmiare sulle pensioni future.
In sostanza, se negli ultimi decenni si fossero imputati ai lavoratori tutti i “contributi” realmente pagati per finanziare l'intera spesa pensionistica, l'aliquota di computo – così importante in un sistema contributivo – sarebbe dovuta essere ben superiore al 40% (aliquota di equilibro), e allora le future pensioni avrebbero un livello ben diverso.
Lo stato risparmia, ma sulla pelle delle giovani generazioni, di nuovo.
Fino a quando lo stato continuerà a comportarsi come una comune associazione a delinquere? Fino a quando?

Cordialmente

Michele Liati



5 luglio 2017 – Vivere sulle spalle degli altri.

Gent. Sig. Mattarella,
qualcuno dice che lo stato sia solo una finzione; finzione che purtroppo è diventata un drammatica realtà. Quasi a metà dell'800, un economista francese, Frederic Bastiat, sosteneva infatti che “lo stato è la grande finzione attraverso la quale tutti cercano di vivere sulle spalle di tutti”.
Come si può “vivere tutti sulle spalle di tutti”? sarebbe una “piramide (economica) umana” impossibile da realizzare: gli uomini si accorgerebbero ben presto di questo paradosso, e vi rinuncerebbero. Ma vi sono due casi in cui questa finzione diventa possibile: quando una minoranza, ben organizzata, riesce a dominare tutti gli altri, per esempio. Ma è una condizione di equilibrio instabile, perché questa situazione può reggersi solo sulla violenza.
Molti ritengono che i guai del nostro paese si debbano ad una “casta” di questo tipo, che domina il resto del paese. Io non sono di questo avviso. Credo piuttosto che – e questo è appunto il secondo caso possibile - le varie forze sociali delle generazioni passate, dalla fine del dopoguerra fino ad oggi, senz'altro con la guida e il 'consiglio' dei partiti politici e dei sindacati, abbiano trovato questa soluzione: “smettiamola di farci la guerra; possiamo garantire benessere per tutti quanti: basta scaricarne i costi sulle generazioni future”. Naturalmente l'ultima parte di questo 'piano criminale' non è mai stato esplicitato in questa maniera; ma era ben chiaro che saremmo giunti a questo.
La lotta di classe è diventato un conflitto generazionale; conflitto già vinto in partenza perché dichiarato a chi non era ancora nato.
Non sono soltanto le varie componenti del bilancio dello stato a confermarci questo fatto: l'alto debito, l'alta spesa per pensioni, gli alti stipendi di molti dirigenti pubblici; lo vediamo anche da molti dati economici più generali.
Facciamo un esempio: immaginiamo il 'ciclo vitale' di un individuo (senza scomodare illustri economisti per una trattazione più rigorosa): un uomo lavora, e riceve un certo reddito; ne consumerà una parte, una parte invece la risparmierà per scopi diversi; principalmente, per scopi previdenziali. Per poter vivere quando si è anziani, infatti, dopo aver abbandonato il lavoro, con redditi prossimi a quelli precedenti, magari per oltre vent'anni, occorre accumulare molto risparmio. Ma ammettiamo che lo stato prometta a questo lavoratore una generosa pensione anche con contributi ridotti, e la promette... con i soldi degli altri (come è infatti avvenuto col sistema retributivo italiano; come ormai dimostrano tutte le analisi); quel lavoratore non dovrà risparmiare così tanto, potrà consumare di più, oppure usare il proprio risparmio 'previdenziale' per altri impieghi: in case, azioni, titoli di stato.
Se poi abbiamo anche uno stato sempre “affamato di risparmio”, perché deve fare spesa in deficit, per garantire una 'crescita economica continua', anche quando ormai non ce sarebbero più le condizioni (come avvenuto dalla fine del cosiddetto miracolo economico fino agli anni '90), per ottenere quel risparmio dovrà attrarre molti risparmiatori, garantendo alti interessi (come avvenuto con i cosiddetti bot-people) e questi 'risparmiatori' riceveranno un ulteriore vantaggio.
Quale sarà il risultato di questo “alterato” ciclo vitale? una ricchezza privata (delle famiglie) molto elevata, e, contemporaneamente, un debito pubblico elevatissimo. O questa sarà la situazione fino a quando non si dovranno pagare i conti, o meglio... far pagare i conti.
Allora i redditi e la ricchezza della generazione che si è ritrovata sulle spalle tutti quei debiti, tutti quei conti, inizierà a declinare, specie rispetto a quelli della popolazione più anziana.
E questo è esattamente il quadro mostrato dalle analisi della Banca d'Italia e di molti altri istituti.
Ecco lo stato che non è più soltanto una finzione, ma un pratico strumento di spogliazione; attraverso il quale, non tutti, ma un'ampia maggioranza (in questo caso qualche generazione) è riuscita e riesce a vivere sulle spalle degli altri.
Chi può garantire questo servizio così unico nel suo genere, che permette di trasformare il furto, la rapina, la violenza...in legge?
Solo lo stato: I partiti, i sindacati, il parlamento, i governi, la magistratura, uniti in una corale opera di spogliazione.
Un servizio così unico, deve ovviamente essere ben remunerato. E' così, io credo, che la casta diventa casta: per il consenso di un intero paese, ormai diventato, nel suo spirito, criminale.

Cordialmente

Michele Liati



8 luglio 2017 – Il diritto e il dovere della disobbedienza

Gent. Sig. Mattarella,
esiste un diritto (o un dovere) di disobbedienza?
Per molti, ovviamente, no: “la legge deve essere rispettata sempre e comunque”, dicono, e sancire un “diritto alla disobbedienza” vorrebbe dire “autorizzare qualcuno a violarla”. La questione non può essere risolta così velocemente, banalmente, erroneamente.
La prima formulazione dell'articolo 50 della Costituzione, così recitava: «Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate. Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino». Per molti costituenti quindi i cittadini, o l'individuo stesso, hanno il pieno diritto di ribellarsi ad un potere ingiusto. E chi scrisse queste righe, non aveva in mente solo la recente esperienza del fascismo: si appellava al fatto che questo principio era – ed è - ribadito in molte Costituzioni e Statuti di altre nazioni.
Questo “diritto”, però, venne poi cancellato dalla Costituzione; forse per il timore che potesse trasformarsi in una legittimazione di future azioni 'rivoluzionarie'.
Per altri, invece, quelle righe risultavano inutili: per costoro, il diritto di disobbedienza era un diritto naturale, originario, superiore alla Costituzione stessa, e quindi non doveva trovar legittimazione dalla Costituzione. Quest'ultimo ragionamento ha qualche fondamento, ma non comprende la vera utilità di un “diritto alla disobbedienza”. Chi decide di ribellarsi alla legge, non aspetta certo una autorizzazione. Il “diritto alla disobbedienza” non deve servire a lui (almeno non direttamente), ma allo Stato.
Chi crede infatti che le leggi debbano essere sempre e comunque rispettate, crede che lo stato sia una entità PERFETTA. E con perfetto non intendo uno stato in cui tutti – compresi i funzionari pubblici – rispettino sempre la legge, i diritti e le libertà di ognuno: questo Stato non esisterà mai; intendo uno Stato in cui ogni 'difetto' di questo sistema, qualsiasi ingiustizia, possa essere cancellata, sanata, e in tempi adeguati. In questo tipo di 'stato perfetto', ovviamente, nessuno avrebbe motivo di disobbedire o ribellarsi alla legge, gli basterebbe riporre la piena fiducia nella Giustizia. Ma anche questo stato “perfetto” non esiste, e non può esistere. Non è un giudizio, se vogliamo, “storico” sulle caratteristiche dello Stato; dovrebbe essere un principio metodologico: bisogna supporre lo stato “imperfetto”, sempre, per poterne correggere gli errori, i difetti; non si può partire dal presupposto che sia già perfetto. Non avrei nulla da correggere. E questa, invece, è proprio la FEDE di chi rifiuta il “diritto alla disobbedienza”.
Molti costituzionalisti si sono espressi nel corso del tempo su questo argomento, dimostrando che il diritto di resistenza o di disobbedienza è comunque contenuto implicitamente nella Costituzione. Tra questi, Costantino Mortati, il quale sosteneva: "La resistenza trae titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare perché questa, basata com’è sull’adesione attiva dei cittadini ai valori consacrati nella Costituzione, non può non abilitare quanti siano più sensibili a essi ad assumere la funzione di una loro difesa e reintegrazione quando ciò si palesi necessario per l’insufficienza e la carenza degli organi ad essa preposti".
Ecco, nelle mie lettere precedenti ho parlato della vicenda sindacale che mi ha coinvolto in prima persona, dei problemi del sistema sindacale, e delle molte rapine e ingiustizie operate dallo Stato.
Io ritengo che i valori della Costituzione, quei pochi, buoni principi che originano dall'esperienza di libertà dei popoli e degli individui, e non dalla fantasia di qualche leguleio, sono da tempo violati, calpestati, e questo ad opera delle stesse istituzioni che avevano invece il compito di difenderli. Per questo, mi ritengo “abilitato” - come sosteneva Mortati – a disobbedire allo stato: non lo ritengo soltanto un diritto, lo ritengo un mio dovere.
Questo diritto alla disobbedienza è quanto mai urgente, ce lo confermano i fatti di questi giorni:
un disobbediente (fossero valide o meno le sue motivazioni, poco importa), è finito in carcere, e ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro questa detenzione che riteneva ingiusta.
Questa protesta ha talmente “toccato” le Istituzioni che il disobbediente... è morto.
Il diritto alla disobbedienza è l'ultima barriera a difesa dei diritti inviolabili dell'individuo, dovrebbe essere il fondamento stesso di qualunque Statuto o Costituzione, per limitare il potere dello stato e soprattutto l'esercizio arbitrario di questo potere. E questo diritto dovrebbe tradursi in strumenti giuridici concreti e realmente operativi.
Fino a quando continuerete a violare nei fatti quei principi che difendete solo a parole?

Cordialmente

Michele Liati



11 luglio 2017 – Un sistema insostenibile e iniquo

Gent. Sig. Mattarella,
nelle precedenti lettere ho spesso accennato alla Rapina Pensionistica: L'Italia ha un rapporto spesa pensionistica su Pil che è il più elevato al mondo; e questa enorme spesa, pesa ovviamente sui contribuenti: la spesa pensionistica raggiunge ormai quasi il 40% dell'intera spesa pubblica (al netto degli interessi).
Questo primato si deve solo in parte alla quota molto elevata di popolazione anziana presente in Italia; infatti, in paesi come la Germania o il Giappone (o molti altri), con caratteristiche e problemi demografici simili, non c'è una spesa così elevata.
Il problema italiano nasce invece dalle generose condizioni offerte dal sistema retributivo.
Negli ultimi decenni si sono fatte molte riforme delle pensioni, ma NESSUNA ha mai toccato veramente questi regali e privilegi, lo conferma appunto il primato attuale: tutti gli altri paesi hanno progettato sistemi previdenziali che non pesassero eccessivamente sulle generazioni future, ovvero che non fosse solo sostenibili, ma anche equi; o sono riusciti a contenere la spesa – con riforme rigorose – quando questa equità sembrava a rischio; in Italia no, non si è avuta questa 'sensibilità'.
Anzi,  i beneficiari di questo sistema (non soltanto i diretti interessanti, ma anche le loro famiglie) sono sempre riusciti a far prevalere i loro interessi respingendo qualunque ipotesi di taglio delle pensioni.
Si può dire che la Gerontocrazia Italiana, ha ottenuto il suo obiettivo e l'ha difeso alla perfezione.
Le riforme del passato, principalmente con il passaggio dal retributivo al contributivo, e col progressivo innalzamento dell'età di pensionamento, sono solo servite – o dovevano servire – per contenere la spesa pensionistica futura, non quella presente.
Dico “dovevano servire”, perché oggi i dati ufficiali ci informano che nemmeno questo obiettivo sarà raggiungibile. La informo io, visto che nessuno ne ha ancora parlato.
Qualche giorno fa è stato infatti diffuso l'ultimo rapporto della Ragioneria Generale dello Stato (Tendenze di medio-lungo periodo sulla spesa pensionistica e socio-sanitaria) sulla previsione della spesa futura. Il nuovo rapporto include – per lo scenario nazionale – le nuove previsioni della popolazione preparate da Istat e – per lo scenario 'europeo' del Economic Policy committee – Working group on Ageing (EPC-WGA) – quelle costruite da Eurostat; quest'ultimo scenario include inoltre anche le nuove ipotesi macroeconomiche per l'Italia stimate dal Comitato stesso.
Entrambi gli scenari mostrano una chiara crescita della spesa pensionistica sul Pil per i prossimi decenni. In particolare, lo scenario del EPC-WGA vede crescere la spesa pensionistica su pil fino ad un massimo di quasi il 19% per il 2040, rispetto al 16% della precedente stima, e al 15% circa attuale.
Personalmente, non ritengo molto attendibili le ipotesi sulle quali sono costruite queste previsioni – le ritengo troppo ottimistiche – ma dobbiamo prendere atto di quello che dicono oggi: Il sistema non sarà sostenibile.
Come si potrà finanziare una spesa pensionistica così più elevata? Si dovrà alzare ancora, e di molto, la pressione fiscale, e questo mentre gli impegni con l'Europa (Fiscal Compact) già ci obbligano ad un notevole sforzo per ridurre il debito pubblico.
Forse si dovrà allora fare un'ulteriore riforma che riduca gli assegni pensionistici futuri, o innalzi ulteriormente l'età di pensionamento.
A farne le spese saranno quindi di nuovo quelle generazioni di contribuenti che ora stanno pagando, con enormi sacrifici, i regali e i privilegi del passato.
Fino a quando continuerete a tacere questa situazione? Fino a quando continuerete a difendere la Rapina Pensionistica?

Cordialmente

Michele Liati



15 luglio 2017 -  Per fatto personale

Gent. Sig. Mattarella,
nei giorni scorsi ho scritto di non aver mai ricevuto alcuna risposta alle mie lettere indirizzate alle Istituzioni; la notizia è imprecisa, lo ammetto: a parte qualche risposta di circostanza da parte della segreteria della passata presidenza della repubblica (neanche una riga dall'attuale presidenza), una risposta l'ho avuta qualche anno fa, dal Ministero del Lavoro, ma soltanto per dirmi che non potevano rispondere in alcun modo, dato che le mie “erano solo opinioni politiche”. Mi sembra importante rispondere a questa accusa: le mie proteste tutto sono fuorché “solo opinioni politiche”.
Innanzitutto, la vicenda sindacale al centro della mia protesta è una notizia, molto probabilmente una notizia di reato, fa specie che dei PUBBLICI UFFICIALI, obbligati dalla legge a trattare queste 'notizie' in modo opportuno, le derubrichino a semplici opinioni.
In secondo luogo, anche quelle questioni che potrebbero sembrare di 'carattere generale', non lo sono affatto. Son tutte questione particolari, personali. Non tratto di massimi sistemi. Mi occupo di problemi che danneggiano singole persone. E problemi senz'altro rilevanti proprio perché danneggiano molte persone. Il sistema sindacale, la rapina pensionistica, etc recano danno a persone vere, concrete: ne riducono i redditi, creano disoccupati, aumentano i poveri.
La cosa grave è che non siano problemi per voi.
Del resto, fa ridere che un potere che agisce unicamente secondo criteri politici accusi altri, e per questo si sottragga completamente al confronto, di esprime, a suo dire, “solo opinioni politiche”.
Fa ridere, ma come sappiamo bene, da molto tempo, in Italia la situazione è grave, ma non è seria.

Cordialmente

Michele Liati




17 luglio 2017 - Effetti della gerontocrazia italiana

Gent. Sig. Mattarella,

nei giorni scorsi Istat ha diffuso gli ultimi dati sulla povertà in Italia: la povertà assoluta tra gli individui più giovani (fino a 17 anni) è arrivata al 12,5%, nel 2005 era la 3,9%; nella fascia 18-34 anni la povertà assoluta è arrivata al 10%, era al 3,1% nel 2005. Anche per la fascia 35-64 anni la povertà è cresciuta dal 2,7% al 7,3%. In compenso, continua a diminuire per le fasce più anziane, già al minimo: 3,8% la percentuale di povertà assoluta attuale, contro il 4,5% del 2005.
Stessa situazione per la povertà relativa: per i più giovani è cresciuta dal 12,6% del 2005 al 22,3%. Per la fascia 18-35, è cresciuta dal 11,2 al 16,7; tra i 36 e 64 anni è cresciuta dal 8,6 al 12,7. Per i più anziani è diminuita dal 13,7 al 8,2.
In questa crisi senza fine, la gerontocrazia italiana sta producendo tutti i suoi effetti: le generazioni del passato continuano a vivere sulle spalle di quelle più giovani.
Si sarebbe potuto evitare tutto questo, 20 anni fa, almeno riformando le pensioni, riducendo regali e privilegi del sistema retributivo; al contrario, si è voluto scaricare tutti i costi della sostenibilità del nostro sistema sulle generazioni future, col passaggio al contributivo, con progressivo innalzamento dell'età pensionabile: quest'ultima operazione in aggiunta – in una situazione di scarsa crescita – ha continuato a tenere fuori dal mercato del lavoro milioni di persone.
Fino a quando, continuerete a difendere questa gerontocrazia?

Cordialmente

Michele Liati




23 luglio 2017 - Gli stranieri e la libertà

Gent. Sig. Mattarella, in questi giorni si è fatto un gran parlare di stranieri e migrazioni; vorrei dire qualcosa a questo proposito, visto che è direttamente collegato con gli argomenti trattati nelle mie precedenti lettere.
Innanzitutto, una preghiera; non l'ho mai fatto: Fermatevi!! Smettetela con i soccorsi in mare.
Dite che è un obbligo, morale, prima che del diritto marittimo? Non è vero.
Il vostro compito, il vostro vero obbligo morale, è impedire che tanti uomini muoiano in questa maniera. E fino ad ora il vostro 'aiuto' ha invece solo moltiplicato i morti. Era del tutto ovvio.
Ammettiamo che al Quirinale, o a Montecitorio o Palazzo Madama, ci sia una scala pericolante, che non può essere messa in sicurezza in alcun modo; ma è una scala molto comoda, perché permette di passare da un livello ad un altro molto velocemente. Qualcuno si è già rotto una gamba, qualcun altro l'osso del collo. Quale sarebbe il vostro compito, morale prima di tutto? Far chiudere la scala.
Mandare 'commessi' incontro alle persone che volessero usare quella scala, per portarli magari in spalla, non servirebbe; anzi, sarebbe un incentivo per continuare ad usarla, più di prima. Con l'ovvia conseguenza di un aumento degli incidenti.
Mettete da parte tutte quelle scuse ipocrite usate fino ad oggi. Dite che non si possono fermare gli sbarchi? Curioso. Vent'anni fa, quando i disperati erano tanti albanesi che cercavano una vita migliore, c'era stato un dispiegamento di mezzi tale, al di qua e al di là del Canale d'Otranto, con tanto di base militare italiana a Durazzo, che quei viaggi si erano ridotti.
Lasciamo perdere quindi le scuse umanitarie, morali; passiamo alle motivazioni vere: quelle economiche, politiche. Si crede che senza gli stranieri l'Italia non possa tornare a crescere, non si possa mantenere la spesa pubblica attuale.
Il ragionamento è molto semplice, potremmo addirittura infantile, per quanto è semplice: se arrivano più stranieri ci saranno più lavoratori, e quindi più contribuenti. Peccato che l'economia non funzioni così. Le persone non sono pezzi di carbone da buttare in una caldaia per fare andare più forte qualche macchina.
Devono sussistere le condizioni, economiche, affinché quelle risorse – sicuramente lo sono – possano fornire il loro contributo, ma che sia un contributo AGGIUNTIVO, non SOSTITUTIVO.
Dal 2008 ad oggi, il numero di occupati stranieri ha continuato a crescere, ma quello degli occupati italiani è calato quasi nella stessa misura.
In Italia abbiamo attualmente poco più di 22 milioni di occupati, con un tasso di occupazione del 57,2%. La media europea è al 65,5%, in Germania al 74,7%, in Svizzera al 80,8%. Ciò significa che se solo avessimo il tasso di occupazione della media europea avremmo oltre 3 milioni di occupati in più - molto più degli attuali occupati stranieri. Se riuscissimo a raggiungere i livelli occupazioni di Germania o Svizzera avremmo addirittura rispettivamente quasi 7 milioni o oltre 9 milioni di occupati in più, e tutti i problemi del sistema pensionistico e di finanza pubblica sarebbero quindi ben diversi. Il problema quindi è del mercato del lavoro, di crescita. Perché allora non si cerca di aumentare questa occupazione? Evidentemente si crede che sia molto più 'occupabile' uno straniero appena arrivato in Italia di un disoccupato italiano. Ecco un subdolo pensiero razzista, contro gli italiani però.
Ma diciamo le cose come stanno: non esiste nessuna motivazione 'di interesse nazionale', niente che possa fare il 'bene del Paese', nessuna 'teoria economica'. Qui si tratta di meschini interessi particolari: di chi può guadagnare, poco o tanto, da questa abbondante manodopera a basso costo, o dal business dei migranti. Poco importano le conseguenze di tutto ciò: le pagherà qualcun altro, come sempre. In termini di disoccupazione, di bassi redditi, di povertà, e sicuramente, anche attraverso l'aumentata criminalità.
Nessuno vuole limitare la libertà degli altri, ma bisogna garantire le condizioni perché tutti possano avere maggior benessere: Iniziate a LIBERARE questo paese, se volete fare qualcosa: azzerate i privilegi pensionistici, azzerate i molti regali distribuiti per ottenere consenso, azzerate il dannoso strapotere dei sindacati, restituite ai lavoratori i loro pieni diritti, di rappresentanza e di contrattazione. Solo così ANCHE gli stranieri potranno essere una vera risorsa.

Cordialmente

Michele Liati




30 luglio 2017  - La fregatura generazionale

Gent. Sig. Mattarella,

nei giorni scorsi i principali giornali hanno riportato le analisi del Fondo Monetario Internazionale sull'economia italiana: “gli italiani guadagnano meno di 20 anni fa...i redditi pro-capite torneranno a livelli ai livelli pre-crisi solo fra un decennio”. E' un fatto noto, in realtà, già sottolineato da tempo dalla Banca d'Italia. Si sa inoltre che ad essere diminuiti costantemente, e da lungo tempo, non solo con la crisi, sono i redditi e la ricchezza di tutta la popolazione più giovane; diciamo pure i “non anziani”. Gli italiani più poveri sono questi.
Ma come si è arrivati a questo risultato? Tutto origina da alcune grandi FREGATURE, preparate dalle generazioni più anziane per quelle più giovani, vediamo le principali:
Prima fregatura: Prendiamo una Banca Centrale, la Banca d'Italia per esempio, che 'stampa' denaro al ritmo del 15-20% l'anno; ogni lira che stampa, è ovviamente una lira in più di potere d'acquisto. Quelle lire finanziano principalmente la spesa pubblica (che opera in deficit quindi), e ne beneficiano direttamente dipendenti pubblici, pensionati, fornitori dello stato, imprese, etc..
Ma un secondo beneficio indiretto lo avranno anche gli utenti finali di quei servizi, che li avranno senza essersi fatti carico del relativo onere fiscale. Ma i benefici non si fermano qui: quel potere d'acquisto, dalle mani dei primi beneficiari finirà a qualcun altro, e da questi ad altri, e ad altri ancora, distribuendosi in tutto il circuito economico. Producendo crescita e benessere.
C'è chi dice che oggi siamo diventati più poveri proprio perché non possiamo più stampare denaro “secondo i nostri bisogni”, perché non abbiamo più questa “sovranità”.
E' vero che quel denaro ha creato ricchezza e benessere per le generazioni passate, ma bisogna anche guardare alla conseguenze: il debito, che dovrà prima o poi essere ripagato.
Lo stato italiano ha operato con ampi deficit (primari) per tutto il periodo dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1992.
Fino agli anni '80 è stata principalmente la Banca d'Italia a finanziare quel deficit, ma creando nell'ultimo periodo una forte inflazione dei prezzi (anche per la crisi internazionale degli anni '70); allora si è pensato di rivolgersi al risparmio degli italiani: risparmio accumulato proprio grazie all'inflazione monetaria creata della Banca d'Italia precedentemente. Ma gli italiani non potevano certo accontentarsi dei bassi interessi (spesso negativi) che prendeva la Banca d'Italia per il debito pubblico; e la politica ha sfruttato un'altra ghiotta occasione per distribuire molti regali, alzando i tassi di interessi ben oltre il dovuto. E si è arrivati così al 1992. Era venuto il momento di pagare il conto: il debito era troppo alto, si voleva entrare nell'Euro.. e il conto è stato lasciato alle generazioni successive.
Dal 1992 ad oggi, questo 'costo' ha già tolto oltre mille miliardi ai contribuenti, senza averne alcun beneficio, solo per pagare le spese – e il benessere – del passato. Ecco la prima fregatura.
Seconda fregatura: mentre le generazioni del passato godevano del benessere creato dalla Banca Centrale, ma preparandoci il bel regalo del Debito, hanno anche pensato di garantirsi ricche pensioni, senza versare i necessari contributi per ottenerle. Come? Le avrebbero pagate le generazioni successive. Sistema a ripartizione e retributivo sono serviti perfettamente allo scopo.
Questa “anomalia”, tutta italiana, è già costata altri mille miliardi alle generazioni più giovani.
Ecco la seconda fregatura
Terza fregatura: a metà degli anni '90, di fronte alle 'sfide' dell'Euro e della globalizzazione, che promettevano alle nostre imprese più concorrenza e competizione, queste sono corse al riparo, in accordo con i governi di allora e quelli successivi: oltre alla forte svalutazione appena ottenuta, le nostre imprese volevano tornare 'competitive' tagliando il costo del lavoro, e così è stato fatto (vedere alla voce Ciampi e Sindacati – anno 1993). Inoltre bisognava assicurarsi manodopera a basso costo per tutti gli anni futuri: importando 'lavoratori stranieri”.
Il costo diretto di tutto questo, in termini di salari più bassi, disoccupazione, costi sociali della migrazione, sono stati scaricati di nuovo sulle nuove generazioni, non PRIVILEGIATE.
Il costo indiretto, forse superiore, è stata la nostra mancata crescita: se proteggi una impresa, o tutto un sistema produttivo, che non è in grado di competere, non ti aspettare che diventi più competitivo.
Ecco la terza fregatura.
Dicono che la spesa pubblica, specialmente in alcune sue componenti, si regga su un “patto generazionale”; in Italia si regge solo su una enorme fregatura generazionale.

Cordialmente

Michele Liati

domenica 16 luglio 2017

Sono (ancora) pochi gli stranieri in Italia?

Molti sostengono che nonostante gli elevati flussi migratori registrati negli ultimi anni, non esiste una vera "emergenza" stranieri in Italia, perché, rispetto ad altri paesi, gli stranieri presenti sul nostro territorio sono ancora pochi.
Naturalmente il rapporto tra stranieri e italiani andrebbe valutato non sull'intero territorio nazionale, e non sull'intera popolazione: Gli stranieri infatti si concentrano prevalentemente in alcune regioni/province, e in alcune classi di età (popolazione adulta e giovanissimi).
Forniamo qualche grafico per comprendere un po' meglio i veri 'rapporti' in gioco.
A voi ogni valutazione.

[Nota: ovviamente i dati considerano soltanto gli stranieri 'regolarmente' residenti, e non possono inoltre differenziare tra italiani (nati in Italia) e stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana recentemente]



























sabato 8 luglio 2017

Le nuove previsioni per la futura spesa pensionistica



Torniamo a parlare brevemente di pensioni.
In questi giorni sono infatti uscite le nuove previsioni della Ragioneria Generale dello Stato relative alla spesa pensionistica (e socio-sanitaria):
Le tendenze di medio-lungo termine del sistema pensionistico e socio-sanitario. Le previsioni della ragioneria generale dello stato aggiornate al 2017

"La Ragioneria Generale dello Stato (RGS) - riportiamo dalla pagina del rapporto - redige annualmente un rapporto nel quale si illustrano le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario. Tali tendenze vengono analizzate sulla base delle previsioni effettuate con i modelli della RGS. Le Anticipazioni del Rapporto n. 18 illustrano le previsioni elaborate con i modelli aggiornati a maggio 2017 a seguito della diffusione, come preannunciato in sede di DEF 2017, delle nuove previsioni demografiche Istat a fine aprile 2017, le quali costituiscono parte integrante dello scenario nazionale base, nonché della trasmissione a fine maggio 2017 del nuovo quadro demografico e macroeconomico definito in ambito europeo per il nuovo round di previsione delle spese pubbliche age-related (scenario EPC-WGA baseline)."

A fine aprile 2017, Istat ha aggiornato le previsioni demografiche con base 2016, previsioni che sono utilizzate proprio per costruire la stima sull'andamento della spesa pensionistica futura.
Il nuovo rapporto, quindi, recepisce questo aggiornamento, e le maggiori differenze (rispetto alle previsioni precedenti) derivano dalle variazioni delle previsioni demografiche.

Le variazioni più significative riguardano le ipotesi relative ai flussi netti di immigrati: nelle precedenti previsioni si stimava un flusso annuo di 209 mila unità, il nuovo valore si ferma a 154 mila unità. Tale contrazione è particolarmente forte nei prossimi venti anni: 155 mila unità all'anno di media, contro 233 mila.




Facciamo notare che tali variazioni non riguardano tanto il numero di 'arrivi', rimasti abbastanza stabili, quanto le 'partenze'. In pratica, gli esperti chiamati da Istat a stimare gli andamenti futuri, prevedono che continueranno le 'fughe' degli italiani (e non solo) verso l'estero. Da qui un minor flusso netto.






Nella tabella qui sotto, sono riportate le variazioni delle nuove previsioni sui vari indici.


L'indice di anzianità (rapporto percentuale tra popolazione anziana - sopra 65 anni - e popolazione in età lavorativa - 15-64 anni) risulta strutturalmente più elevato: 280% , dopo il 2040, contro il 265% precedente. L'Italia del futuro sarà ancora più 'anziana' di quanto si prevedeva.


La riduzione del tasso di immigrazione netta, e quindi la riduzione della popolazione, si riflette, riducendolo, sul tasso di crescita degli occupati; questo riduce a sua volta il tasso di crescita della produttività, e quindi del PIL.
La minore crescita del PIL determina anche una riduzione dei tassi di sostituzione delle pensioni future, in altre parole, degli importi pensionistici futuri (visto che tali importi sono strettamente legati, tramite il nuovo sistema contributivo, alla 'capitalizzazione' - contabile - dei contributi versati proprio attraverso la crescita del PIL).
In poche parole, le pensioni contributive future, saranno sempre più povere.

Tutte queste differenze comportano importanti variazioni sull'andamento della spesa pensionistica su PIL. Con ovvie conseguenze sulla sua sostenibilità.
Qui sotto le differenze nello scenario nazionale (in azzurro lo scenario nazionale base precedente - in blu il nuovo scenario con l'aggiornamento delle nuove previsioni sulla popolazione), che include le ipotesi e le previsioni demografiche Istat sopra-descritte.


Oltre alle previsioni dello scenario nazionali, sono inoltre disponibili anche quelle dello scenario EPC-WGA, con differenze ancora più marcate.



Aggiungo qualche informazione utile per comprendere meglio quest'ultimo grafico.
La figura rappresenta come detto la previsione della spesa pensionistica su Pil secondo lo scenario EPC-WGA. Queste previsioni vengono prodotte ogni tre anni dal Economic Policy committee – Working group on Ageing per monitorare l'andamento della spesa pubblica relativa alla popolazione più anziana (age-related): l'ultima previsione era quella del 2015, la prossima sarà quella del 2018; le ipotesi per questo scenario sono però già state delineate e consegnate a maggio di quest'anno.
E sono qui rappresentate dalla curva blu (confrontate con quelle precedenti, 2015, in azzurro).
Va segnalato che le previsioni della popolazione, attraverso le quali questo scenario è poi costruito, in questo caso sono affidate a Eurostat (in collaborazione, per l'Italia, con Istat).
Le previsioni Eurostat prevedono una contrazione dei flussi migratori netti di circa il 50% nei primi 25 anni del periodo di previsione (quindi con riduzione anche maggiori rispetto a Istat).
Le variabili del quadro macroeconomico sono invece preparate dalla Commissione e queste prevedono nel prossimo decennio un andamento addirittura negativo dell'andamento della produttività totale dei fattori.
Da questa deriva una contrazione della crescita della produttività in generale, componente essenziale della condizione di 'equilibrio' della spesa su pil, oltreché, come visto, dell'entità delle pensioni future.
Le previsioni della commissione prevedono infine un peggioramento anche del tasso di disoccupazione.
Il risultato di queste diverse IPOTESI utilizzate in ambito europeo è una crescita molto rapida della spesa pensionistica su pil già a partire dal 2020 (quando gli effetti della riforma Fornero saranno ormai vanificati dalla crescita della popolazione pensionata, e dal calo del pil - o dovremmo dire mancata crescita del pil).
In sostanza, nel 2040 la spesa pensionistica su pil arriverà al 18,5% rispetto 16% delle previsioni precedenti.

Queste variazioni vanno poi a determinare la spesa 'sociale' complessiva.
Nello scenario nazionale...


..o in quello EPC-WGA.


Abbiamo molto dubbi sulla bontà delle previsioni della Ragioneria Generale dello Stato; in futuro proveremo a trattarli nel dettaglio. Ma in qualsiasi caso, se dobbiamo considerare queste previsioni per gli scopi per cui sono create, ovvero per valutare la sostenibilità del sistema pensionistico, il quadro è molto preoccupante.

Ma ci torneremo con più calma.


domenica 2 luglio 2017

Ci salveranno gli stranieri?

Negli ultimi giorni si discute molto di stranieri e immigrazione, per via del progetto di legge dello Ius Soli, ma anche per i numerosi sbarchi delle ultime ore. Non parleremo di Ius Soli in questa lettera, e nemmeno degli sbarchi, ma vogliamo cogliere questa occasione per tornare nuovamente sul tema 'stranieri'.
Come annunciato recentemente qui infatti, nei prossimi articoli ci occuperemo delle 'teorie' più diffuse circa le cause della 'crisi' italiana e le possibili soluzioni.
Tra queste possibili 'soluzioni' rientra senza dubbio l' immigrazione.
E' opinione molto diffusa infatti (tra politici, economisti, giornalisti, italiani e non, ma ormai anche in buona parte della popolazione) che l'Italia, per risolvere i propri problemi demografici, ma anche economici, nei prossimi decenni, dovrà necessariamente fare sempre più affidamento sugli stranieri.

Il problema demografico




Nel grafico qui sopra possiamo vedere l'andamento storico della popolazione residente in Italia, insieme alle previsioni demografiche (stimate da DemoIstat fino a qualche anno fa) per i prossimi decenni.

[NOTA: Recentemente sono uscite previsioni più aggiornate, ma che purtroppo non consentono, come nel passato, di separare la componente italiana da quella straniera. Abbiamo anche chiesto ad Istat il motivo di questo fatto, e ci ha così risposto:
"differentemente dal passato le nuove previsioni demografiche non contemplano la variabile cittadinanza. Ciò per scelta metodologica ma anche per il modificato contesto nazionale, in relazione alle difficoltà di identificare (nonchè di dedurne i comportamenti demografici futuri) la comunità residente immigrata sulla base del solo criterio di cittadinanza."]

Come si può notare, la popolazione italiana ha smesso di crescere già negli anni '80, con un lento declino successivo; a partire dalla crisi, tale declino è diventato ben più rapido (anche per la 'fuga' di un sempre maggior numero di italiani verso l'estero).
Negli ultimi 15-20 anni tale riduzione è stata compensata, e lo sarà sempre più, dall'arrivo di stranieri: negli anni '90 la componente straniera in Italia copriva percentuali minime, poi è andata crescendo, con una forte accelerazione negli anni 2000.



Negli ultimi 10-15 anni, sono arrivati in Italia, in media, circa 300 mila stranieri ogni anno.


A inizio 2017 (al netto di chi nel frattempo ha acquisito la cittadinanza italiana, fenomeno molto cresciuto negli ultimi anni) gli stranieri residenti in Italia avevano raggiunto la cifra di 5.047.028. I residenti nati all'estero arrivano a quasi 6 milioni e mezzo.
Per contro, la stampa ci informa che sono oltre 500 mila gli italiani che, dal 2008 ad oggi, hanno scelto di trasferirsi all'estero.
Il problema demografico italiano, quindi, si è ulteriormente aggravato negli ultimi anni per l'aumento delle partenze italiane.

Ma a cosa si deve la crisi demografica italiana? E perché non si riesce a risolverla?
Inutile addentrarci ora in una questione così complessa, ora; accontentiamoci di dire che vi sono svariate ragioni: culturali, economiche, sociali.
Quello che vogliamo sottolineare è invece un fenomeno che raramente viene associato al problema demografica: le interruzioni di gravidanza.
Il tema è sempre fonte di mille polemiche e discussioni, e forse proprio per questo si preferisce escluderlo da questo tema. Ma non bisogna avere alcun timore delle polemiche, quando si cercano solo i fatti e la verità.

Gli aborti in Italia

Riguardo alle interruzioni di gravidanza vi sono, ovviamente, posizioni contrastanti. Talvolta si sente anche dire che "comunque il fenomeno è molto ridotto, gli aborti sono pochi": aldilà delle opinioni personali, questa è sicuramente una affermazione che non può essere accolta.

Cosa dicono infatti i numeri ufficiali?
Dicono che nei primi anni '80, subito dopo la legge sull'aborto, si registravano 200 mila - 230 mila aborti l'anno. Poi le interruzioni di gravidanza sono scese ai circa 100 mila attuali, seguendo per altro lo stesso andamento di nascite, matrimoni, etc.
100 mila aborti, o anche 200 mila possono sembrare pochi in confronto ai 27 milioni di donne (sopra i 14 anni) presenti in Italia (è questo un confronto spesso usato riguardo a questo fenomeno); ma gli aborti andrebbero più correttamente confrontati col numero di concepimenti, o con i nuovi nati.




Con questo confronto si trova che nei primi anni '80 la percentuale di aborti sui concepiti era tra il 25 e il 28%. Quella sui nati, tra il 33 e il 39%.


Ciò vuol dire, per usare numeri ancora più semplici, che ogni 4 concepiti, uno e più veniva abortito; per 3 bambini nati, un altro non nasceva perché abortito.
Oggi quelle percentuali sono scese al 16% sui concepiti (circa 1 su 5), e al 20% dei nati (uno su 5).

Ma nel complesso? vediamo anche i dati cumulati.



Dal 1980 al 2014 sono nati (vivi) 19,4 milioni di individui in Italia.
5,7 milioni sono stati invece gli aborti complessivi, i "non nati".
(Una cifra simile agli stranieri oggi presenti in Italia, quelli "assolutamente indispensabili alla nostra economia perché non facciamo più figli").
Sui valori cumulati la % di aborti sui concepiti arriva al 21,3%, sui nati al 27,2%.
Nel complesso quindi, dal 1980 al 2014, all'incirca, ogni cinque concepiti uno è stato abortito (4,7 per essere precisi), per ogni quattro nati un altro bambino non è nato (3,7 per la precisione).
Quasi 6 milioni di italiani "non nati", quindi, che si traducono in un numero proporzionale di 'non matrimoni', e ulteriori 'mancati concepimenti' e 'mancate nascite'.
Questi i numeri, reali. Se a voi sembrano pochi...

La crisi demografica, quindi, si deve anche a questo nuovo costume sociale moderno. Ovviamente non solo italiano.

Quale aiuto alle famiglie

Per il calo demografico italiano si indicano però molto spesso anche cause economiche.
Anche se ovviamente non possono spiegare interamente il fenomeno.

L'alta disoccupazione, o la bassa occupazione, sono problemi che in Italia riguardano principalmente i giovani.



Negli ultimi anni, nelle fasce più giovani, oltre al calo degli occupati in valore assoluto (per il calo demografico in queste fasce di età), ...




sono fortemente diminuiti anche i tassi di occupazione; contemporaneamente invece, alla crescita di quelli delle fasce più anziane (fenomeno senz'altro dovuto al progressivo innalzamento dell'età di pensionamento, all'interno di un mercato del lavoro stabile se non in declino).


Ma il "declino" dei più giovani, in Italia, non si limita solo alla maggiore disoccupazione (minore occupazione), e non ha inizio solo con la 'crisi'. E' un fenomeno "di lunga data", basta vedere ai dati relativi ai redditi e alla ricchezza per fasce di età.


Negli ultimi 40 anni sono cresciuti enormemente i redditi (reali) degli individui più anziani (segno di un sistema pensionistico sempre più generoso), e ormai i redditi di questa fascia di popolazione ha raggiunto quelli medi della popolazione più giovane.


I redditi medi (reali) delle famiglie più giovani sono invece diminuiti costantemente, e dalla fine degli anni '90; poco prima della crisi hanno iniziato a diminuire anche quelli degli adulti.

Anche la ricchezza, ha seguito gli stessi andamenti.





Ma quali sono le politiche pubbliche per aiutare le famiglie, soprattutto quelle più giovani?
Come abbiamo già visto molte volte nei precedenti articoli, a fronte della spesa pensionistica più alta al mondo, la spesa sociale 'non pensionistica' in Italia è tra le più basse, rispetto a quella di altri paesi.




Più nel dettaglio, l'Italia riserva una percentuale molto bassa della spesa pubblica alle famiglie (non anziane), molto più bassa della media Oecd e di molti paesi.


Una differenza ancora più evidente riguarda la spesa destinata a combattere l'esclusione sociale.



Non vogliamo certo sostenere che "lo stato fa troppo poco"; piuttosto, fa anche troppo, perché è la causa principale di questa situazione. Ma è evidente che ben poche risorse sono destinate alle famiglie e a combattere la povertà.

L'Italia, è sempre più un paese per vecchi.

La povertà tra i giovani

Il risultato di questa situazione è che le fasce più giovani sono anche le più soggette al rischio povertà.

Nel 2015, secondo Istat, il 10,2% delle famiglie più giovani (con capofamiglia tra i 18 e i 34 anni) era in condizione di povertà assoluta, e il 12,8% in povertà relativa, contro il 4% delle famiglie più anziane (con capofamiglia con 65 anni e più) in povertà assoluta e l'8% 'relativamente' povere.


Guardando agli individui: il 10,9 % delle persone fino 17 anni era povero in senso assoluto, e il 20,2 in senso relativo; tra i 18 e i 34 anni le percentuali diventano 9,9% di poveri assoluti, e 16,6 di poveri 'relativi'; contro il 4,1% di poveri assoluti degli over 65,e l' 8,6% di poveri relativi.



Questa situazione è senz'altro causata dalle attuali condizioni economiche, ma in parte anche dalla stessa redistribuzione statale.
Lo dimostrano le recenti statistiche pubblicate da Istat appunto sulla  Redistribuzione del reddito in Italia.

La redistribuzione del reddito

Ovviamente, gran parte della redistribuzione statale, opera attraverso le pensioni:
gli anziani, infatti, non disponendo più di un reddito da lavoro, se non avessero una pensione, si troverebbero in larga parte in condizioni di povertà.
Il dato interessante evidenziato da Istat è che per rendere "meno poveri" alcune persone (ma anche per rendere 'più ricchi' i 'già ricchi'), lo stato rende 'più poveri' molte altre persone più giovani.





Il rischio di povertà per gli individui fino a 14 anni, dopo l'intervento redistributivo statale, passa dal 20,4 al 25,1%; dal 19,7 al 25,3% per i giovani tra 15-24 anni, dal 17,9 al 20,2% per i giovani tra 25-34 anni (e un peggioramento quasi identico si ha anche per la fascia tra 35-44 anni).
Con qualche semplice conto si trova che la redistribuzione statale porta oltre un milione di individui ad essere a rischio di povertà.

Un'altra tabella interessante pubblicata da Istat è quella che mostra l'incidenza dei vari prelievi per classe di reddito.


Se si sommano le varie componenti si trova che, tra contributi, irpef, e altro, gli individui più poveri, della prima fascia, hanno un prelievo del 22,7% sul reddito lordo famigliare (una percentuale altissima, considerata la fascia), quelli della seconda fascia arrivano al 25,2%, in terza al 28,3, in quarta al 32,3, in quinta fascia al 35,6%.

Le varie percentuali mostrano ovviamente un andamento progressivo, dato dall'incidenza dell'irpef; ma evidenziano soprattutto il prelievo molto elevato anche per le famiglie e per gli individui più poveri, e questo soprattutto per l'elevato prelievo contributivo, quello che serve appunto per pagare le pensioni.

E' del tutto ovvio, quindi, che fatte tutte queste considerazioni, i risultati, in termini demografici, sono poi questi:






Fatte tutte queste considerazioni riguardo al problema demografico, e sul costante impoverimento della popolazione più giovane, è il caso di tornare al tema centrale di questo scritto:

Ci salveranno gli stranieri?

Molti, come dicevamo, sono convinti di sì; e la questione non è esclusivamente demografica, perché si crede che "importare" stranieri possa contribuire a migliorare la crescita economica, e soprattutto, possa contribuire a finanziare meglio le spese dello stato, a partire da quella pensionistica.
Il ragionamento su cui si basa questa 'certezza' è molto semplice: "se arrivano più stranieri, ci saranno più lavoratori, quindi crescerà la produzione, i redditi, i consumi, e cresceranno anche contributi e tasse per lo stato."

E questa convinzione, sembra aver trovato recentemente conferma nei molti "bilanci" (stimati da alcuni istituti che si occupano del fenomeno immigrazione) sul contributo fornito dagli stranieri all'economia italiana e ai bilanci pubblici.

Abbiamo già avuto modo di occuparci di questo argomento; non è il caso ora di tornarci, ma vogliamo quantomeno riassumere e ricordare alcune considerazioni importanti.

I diversi 'bilanci' diffusi frequentemente dalla stampa (tra i più noti quelli costruiti da Fondazione Moressa), sono (possiamo dirlo con assoluta certezza) bilanci falsi.
Comprendiamo le finalità dei giornali e di certe fondazioni: combattere quel razzismo che si crede così radicato nella nostra società, dimostrando che gli stranieri danno più di quello che ricevono.
Comprendiamo, ma non condividiamo.

Innanzitutto, non credo affatto che la società italiana sia così razzista come molti vogliono credere; anzi, ritengo che sia tra le più accoglienti.Semplicemente quello delle persone preoccupate dai fenomeni immigratori, il più delle volte, è solo sano buon senso: vedono e vivono sulla propria pelle i problemi generati dai fenomeni migratori, e vorrebbe risolverli; il problema invece è che trovano quasi sempre dall'altra parte (da parte di molti partiti, e giornalisti, etc) solo indifferenza o aperta ostilità; in una parola, razzismo.
In qualsiasi caso, non è con la propaganda e con la diffusione di informazioni 'manipolate' che si può combattere quello che viene definito 'razzismo'.

Tornando alla convinzione che "solo gli stranieri possano salvarci", facciamo una considerazione molto semplice:

In Italia abbiamo attualmente poco più di 22 milioni di occupati, con un tasso di occupazione (nella fascia 15-65 anni) del 57,2%. Un tasso bassissimo, se si considera che la media europea è al 65,5% (la germania arriva al 74,7, la svizzera addirittura al 80,8).
Se avessimo anche soltanto il tasso di occupazione della media europea avremmo oltre 3 milioni di occupati in più, molto più degli attuali occupati stranieri.
Se riuscissimo a raggiungere i livelli occupazioni di Germania avremmo addirittura quasi 7 milioni di occupati in più, con il tasso svizzero, oltre 9 milioni di occupati in più.
In questo caso, è ovvio che i problemi economici del nostro paese, a partire dal finanziamento dell'elevata spesa pensionistica non sarebbero più problemi..
Il problema principale quindi riguarda il nostro mercato del lavoro, di certo non la mancanza di lavoratori.
Ma come si raggiunge un tasso di occupazione più alto? Come si ottiene più crescita.
Non siamo in grado di fornire una risposta, ma per la questione in oggetto, è anche inutile chiederselo: perché se non si riesce a risolvere questo dilemma, importare più lavoratori stranieri significa semplicemente che questi, al massimo, andranno a sostituire altri occupati italiani.

Ed è quello che è successo negli ultimi anni:
Dalla fine degli anni '90, fino alla crisi del 2008, la crescita dell'occupazione (vuoi una 'crescita' favorevole - ma forse non troppo 'sostenibile' - vuoi qualche riforma nel mercato del lavoro), ha riguardato tanto gli stranieri (di più) che gli italiani (meno).






Dalla crisi, le cose sono cambiate completamente:
l'occupazione degli stranieri ha continuato a crescere, mentre quella degli italiani è crollata (si è un po' ripresa solo nell'ultimo periodo, rimanendo ad un livello ben inferiore a quello pre-crisi).

La reale "sostituzione"

Riguardo a questi dati sull'occupazione è necessario fare anche un ulteriore ragionamento, per meglio comprendere i 'reali' fenomeni in atto.
Osservando la dinamica degli occupati si può senza dubbio dire che negli ultimi due anni si è finalmente invertita una tendenza, e l'occupazione è tornata a crescere.
Soprattutto, sembra essere tornata a crescere ANCHE per gli italiani.
Questo dicono i dati, ma solo in apparenza.
Da qualche anno si registra una forte accelerazione delle acquisizioni di cittadinanza. E occorre tenerne conto.




Quelli che fino ad un certo anno erano considerati stranieri, nelle statistiche, l'anno dopo sono diventati italiani a seguito dell'acquisizione della cittadinanza. Quindi spariscono dagli aggregati 'stranieri' per aumentare quelli degli 'italiani'.
E' vero che non è possibile sapere quanti di questi nuovi italiani sono occupati, ma si può ipotizzare che, appunto perché abbiano acquisito la cittadinanza italiana, e quindi in italia da lungo tempo, siano anche occupati. Ho provato quindi a stimare l'andamento della occupazione al NETTO delle acquisizioni di cittadinanza


Da questi dati 'corretti', la crescita dell'occupazione 'straniera' è ancora più netta, e si rileva che quella italiana ha continuato a diminuire anche negli ultimi anni.
La SOSTITUZIONE di lavoro italiano con lavoro straniero continua quindi, e sempre più velocemente.

E questo fenomeno ha importanti conseguenze: se gli stranieri sostituiscono semplicemente i lavoratori italiani, non vi sarà occupazione aggiuntiva, non ci saranno contributi aggiuntivi. Solo il "contributo" che avrebbero potuto dare all'economia altri lavoratori. In più, però, avremo molti più disoccupati (italiani o stranieri) con ovvie conseguenze.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Chiariamo subito una questione: quando si parla di 'sostituzione', in senso economico, non si parla certo di una azienda che licenzia l'operaio italiano per assumere un operaio straniero, non avviene così la 'sostituzione; la "sostituzione" tra occupati può avvenire per la diversa dinamica tra settori, produzioni, consumi.
Facciamo un esempio: se cresce la "domanda di badanti", vuol dire che maggiori risorse economiche sono destinate a quel "servizio/prodotto"; se l'economia non cresce almeno proporzionalmente, quelle risorse sono state trasferite da altri settori, da altri prodotti e servizi, verso quello delle badanti.
La badante straniera, considerando le dinamiche del sistema economico, può anche sostituire l'ingegnere italiano. E' più che ovvio.

Quindi si può onestamente ammettere che sì: gli stranieri possono prendere il lavoro degli italiani.
Ed è una affermazione del tutto neutra. Del resto, se si ammette senza problemi la concorrenza tra imprese, tra prodotti e servizi, perché non ammettere quella tra lavoratori stranieri e quelli italiani?
Quello che resta da capire, visto che gli occupati stranieri sembrano sostituire sempre più gli occupati italiani, è quale 'vantaggio competitivo' possiedano gli stranieri rispetto agli italiani.

E a questo proposito, è bene affrontare un'altra verità molto diffusa:

"gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare.."

Innanzitutto, visto che in economia tutto dipende dai 'prezzi', la frase andrebbe quantomeno così completata: "gli stranieri fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare... a quel prezzo".
E questo sembra essere, senza dubbio, il vantaggio competitivo degli stranieri.

E' ben ovvio che chi proviene da paesi 'poveri' sarà sempre disposto ad accettare salari più bassi di quelli chiesti da un italiano (salario di riserva.. lo chiamano gli economisti), per il semplice motivo che qualunque basso salario italiano rappresenterà quasi sempre un miglioramento rispetto alla condizione precedente.

Ma vi è un altro vantaggio economico, da considerare, e non è per niente ininfluente.

Il potere d'acquisto del risparmio straniero

Un lavoratore guadagna un certo reddito, che vale per esempio 1000, ne risparmierà una parte, e quel risparmio, accantonato, investito, potrà garantire un certo rendimento.
Ma ammettiamo che il risparmio di un certo lavoratore possa, quasi istantaneamente, garantirgli un rendimento altissimo, tanto da farlo raddoppiare, triplicare, decuplicare di valore.
Quali conseguenze ci saranno nelle scelte del lavoratore? prima di tutto, sarà portato a risparmiare una quota maggiore del proprio reddito; inoltre, sarà disposto ad accettare retribuzioni più basse, pur di lavorare e avere quindi un reddito, dato il maggior rendimento che gli garantisce il suo risparmio.

Ebbene, i lavoratori stranieri risparmiano parte dei redditi conseguiti nei paesi che li ospitano, e buona parte di questi risparmi vengono inviati nei paesi di origine tramite le cosiddette rimesse.
Ma queste rimesse, attraverso le differenze di potere d'acquisto oggi esistenti tra molti paesi, acquisteranno nei paesi d'origine un valore ben diverso, molto più alto. Come se appunto, garantissero un alto rendimento immediato.
Per esempio, un euro mandato negli USA, equivale a poco più di un dollaro americano, e non avrà che il potere di acquisto di poco più di un dollaro americano.
Ma un dollaro mandato in Honduras vale 10 volte tanto (ha un potere di acquisto di 10 volte).

Le rimesse dei lavoratori stranieri verso i paesi di origine sono state nel 2015 di circa 5,3 miliardi.

Dopo essere cresciute, di anno in anno, toccando un massimo di 7,4 miliardi nel 2011, negli ultimi anni hanno iniziato a diminuire.


Buona parte di questa dinamica è dovuta alla rimesse verso la Cina, cresciute rapidamente fino al 2012, e poi fortemente diminuite.

Proviamo quindi a prendere queste rimesse, per i diversi paesi di destinazione, e a 'rivalutarli' secondo i diversi coefficienti di parità di potere d'acquisto. Queste sono le stime.



Gli stranieri, quindi, hanno questi 'vantaggi competitivi', rispetto agli italiani; ma vale subito la pena chiedersi: è un bene che ci sia qualcuno disposto a vendere il proprio lavoro a meno? è un bene che il lavoro sia sempre così a buon mercato?

Non si direbbe, in base a quello che sostiene la "teoria economica", visto che la crescita, lo sviluppo sembrano generalmente procedere nella direzione opposta: si trovano attività sempre più produttive, a maggior valore aggiunto, ma che richiedono anche maggior capitale, anche umano, e quindi retribuzioni più alte. E tutte le attività "marginali" a bassa produttività vengono "selezionate", e molte spariscono, perché non più remunerative. Bisogna rimpiangere tanti antichi mestieri lamentandosi della crudele economia che li ha fatti sparire? Sono spariti perché ormai ANTIECONOMICI, in un mondo come il nostro che offre, per fortuna, opportunità "migliori".

L'Italia degli ultimi anni sembra essere andata in senso opposto, e questo, non perché il 'mercato' sembra funzionare in modo diverso, ma perché si è scelta una "politica industriale" o di "sviluppo" di questo tipo.
Su queste scelte, hanno pesato senza dubbio le caratteristiche del nostro sistema produttivo: fino a non molti anni fa, eravamo noi la Cina d'Europa. I 'miracoli' fatti dipendevano molto dal basso costo della nostra manodopera. Così quando sono arrivate le 'tigri asiatiche', quando è arrivata la globalizzazione le resistenze per cambiare completamente modello produttivo, per spingersi verso produzioni a maggior valore tecnologico, più avanzate sono state molte; e si è preferito cercare mille 'protezioni' al sistema in essere: senza dubbio la ricerca di manodopera a basso costo, offerta dall'arrivo di stranieri, è stato uno di questi (ma non il solo).

Quindi, no, possiamo dire - senza ombra di dubbio - che non è un bene per lo sviluppo italiano aver trovato una fonte inesauribile di manodopera a basso costo. Almeno non se non le nostre produzioni non prendono anche altre strade, più moderne.
Tutto questo non potrà che ritardare la vera modernizzazione della nostra economia.

[Non tratteremo qui di un argomento molto importante, quello della criminalità associata agli stranieri, lo faremo in futuro. ]

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In conclusione, nessuno mette in dubbio la libertà di ogni persona di spostarsi per ricercare una vita migliore, ma occorre interrogarsi adeguatamente sulle conseguenze di questi fenomeni e anche sulle cause di certi fenomeni. In particolare, quando questi fenomeni, se non 'pianificati' sono sicuramente 'incentivati' , in molti modi, dalla politica.
La forte immigrazione in Italia non sembra capace di risolvere i nostri problemi, sicuramente non senza intervenire in tanti altri problemi della nostra economia.
Si può, anzi ritenere che l'immigrazione abbia contribuito alla decrescita italiana.