sabato 19 novembre 2016

La spesa pensionistica INPS 2016

In questa lettera analizzeremo la spesa pensionistica INPS per l'anno 2016, attraverso gli ultimi dati pubblicati dallo stesso ente.
L’importo complessivo annuo è calcolato moltiplicando l’importo medio mensile per 13 mensilità, per il numero di pensioni.
I dati fanno riferimento sia alle pensioni 'private' sia a quelle delle gestioni pubbliche (resta esclusa la gestione ex Enpals).
L'analisi verrà fatta per tipologia di pensione (anzianità,vecchiaia, invalidità, superstiti) e per territorio.
[Il territorio italiano è così suddiviso nei dati INPS:
  • Nord-Ovest (Piemonte, Valle D’Aosta, Lombardia, Liguria)
  • Nord-Est (Trentino Alto Adige, Fiuli Venezia Giulia, Emilia Romagna)
  • Centro (Toscana, Umbria, Marche, Lazio)
  • Sud (Abruzzo, Campania, Molise, Basilicata, Puglia, Calabria)
  • Isole (Sicilia, Sardegna)]

La spesa complessiva per il 2016 viene stimata in 264 miliardi, circa 198 miliardi a carico delle gestioni 'private' (75% del totale), 66 miliardi relative alle gestioni pubbliche (25%).



Per le gestioni private (spesa complessiva di circa 198 miliardi), 88,6 miliardi riguardano pensioni di anzianità (45%), 43,8 miliardi pensioni di vecchiaia (22%), 5,5 miliardi pensioni relative a prepensionamenti (3%), 9,2 miliardi per pensioni di invalidità (5%), 16,4 miliardi per invalidi civili (8%), 29,7 miliardi sono per pensioni ai superstiti (reversibilità, 15% del totale) e infine 4,7 miliardi sono per pensioni/assegni sociali (2%).


La spesa, sempre per le gestioni private, può essere così scomposta territorialmente:
67,3 miliardi nel Nord-Ovest (34%), 41,6 miliardi nel Nord-Est (21%), 39,7 miliardi nel Centro (29%), 33,6 miliardi nel Sud (17%) e 15,7 miliardi nelle Isole (8%).



Per le gestioni pubbliche (spesa complessiva di circa 66 miliardi), 40,6 miliardi sono per pensioni di anzianità (61%), 11,3 miliardi sono per pensioni di vecchiaia (17%), 5,5 miliardi per inabilità (8%), 8,9 miliardi per pensioni ai superstiti (13%).



Secondo la suddivisione territoriale, la spesa per le gestioni pubbliche è così ripartita:
13,3 miliardi nel Nord-Ovest (20%), 12,4 miliardi nel Nord-Est (19%), 16,5 miliardi nel centro (25%), 16,2 miliardi nel Sud (24%) e 7,9 miliardi nelle Isole (12%).



Analizziamo ora la spesa per territori, per singole tipologie di pensione (sommando gestioni private e pubbliche).

Le pensioni di anzianità arrivano ad una spesa complessiva di circa 129 miliardi, così suddivisi:
45,1 miliardi nel Nord-Ovest (35%), 30,2 miliardi nel Nord-Est (23%) (58% complessivo per il Nord), 26,3 miliardi nel Centro (20%), 18,5 miliardi nel Sud (14%) e 9,0 miliardi nelle Isole (7%) (21% complessivo per il Meridione).


Le pensioni di vecchiaia hanno una spesa complessiva di circa 55 miliardi, così suddivisi:
14,7 miliardi nel Nord-Ovest (27%), 10,3 miliardi nel Nord-Est (19%) (46% complessivo per il Nord), 13 miliardi nel Centro (24%), 12 miliardi nel Sud (22%) e 5,1 miliardi nelle Isole (9%) (31% complessivo per il Meridione).


La spesa complessiva per prepensionamenti è di circa 5,5 miliardi, così suddivisi:
2,6 miliardi nel Nord-Ovest (47%), 0,9 miliardi nel Nord-Est (16%) (63% complessivo per il Nord), 0,9 miliardi nel Centro (17%), 0,8 miliardi nel Sud (15%) e 0,3 miliardi nelle Isole (5%) (18% complessivo per il Meridione).


La spesa complessiva per pensioni di invalidità (invalidità, invalidità civile e inabilità) è di circa 31 miliardi, così suddivisi:
6,1 miliardi nel Nord-Ovest (20%), 4,6 miliardi nel Nord-Est (15%) (35% complessivo per il Nord), 6,8 miliardi nel Centro (22%), 9,2 miliardi nel Sud (30%) e 4,4 miliardi nelle Isole (14%) (44% complessivo per il Meridione).


Per le pensioni di reversibilità (superstiti di pensionato o assicurato) la spesa complessiva è di circa 39 miliardi, così suddivisi:
11,4 miliardi nel Nord-Ovest (30%), 7,6 miliardi nel Nord-Est (20%) (50% complessivo per il Nord), 8,1 miliardi nel Centro (21%), 7,7 miliardi nel Sud (20%) e 3,8 miliardi nelle Isole (10%) (30% complessivo per il Meridione).


Per le pensioni sociali la spesa complessiva è di circa 4,7 miliardi, così suddivisi:
0,8 miliardi nel Nord-Ovest (16%), 0,5 miliardi nel Nord-Est (10%) (26% complessivo per il Nord), 1 miliardo nel Centro (20%), 1,6 miliardi nel Sud (35%) e 0,9 miliardi nelle Isole (19%) (54% complessivo per il Meridione).



Nei seguenti grafici, infine, la spesa complessiva è scomposta per territorio e per tipologia di pensione, secondo i valori assoluti (miliardi di euro) o come valori percentuali (sul totale del tipo di pensione o sul totale per territorio).










giovedì 17 novembre 2016

Bassi salari, e sindacati

Fino ad ora, nelle lettere precedenti, abbiamo analizzato le principali (per dimensioni) rapine operate dallo stato; ma queste sono soltanto quelle che avvengono in maniera diretta (e operate direttamente dallo stato), in maniera più visibile (perché basta analizzare e comprendere i bilanci pubblici).
Vi sono tuttavia altre rapine indirette, non operate direttamente dallo stato; per questo motivo, queste sono ancora più difficili da riconoscere (non solo nel senso di 'vedere e capire', ma proprio nel senso di 'riconoscerle ' come ingiustizie).
Oggi proveremo a parlare delle basse retribuzioni italiane, e delle cause di questo fenomeno.

.........................

Nel 2015, secondo i dati Oecd, la retribuzione media (retribuzione da lavoro dipendente) in Italia è stata di 30.710 euro.
Proviamo a confrontarla con le retribuzioni medie degli altri paesi.
Quello che vogliamo, però, non è ovviamente un confronto sui lavori nominali (e su valute diverse), che avrebbe poco senso, ma "a parità di potere d'acquisto" .
Leggiamo quindi i dati Oecd in dollari PPP.
Con questa trasformazione i nostri 30.710 euro diventano 41.250 dollari (PPP, a valori 2015).




I 41.250 dollari delle retribuzioni italiane sono di poco superiori a quelle irlandesi (41.054 $) e spagnole (39.529 $), ma inferiori alla media Oecd (42.088 $), e ben lontane da quelle francesi (46.103 $PPP, con un differenza di 4.853 dollari rispetto a quelle italiane), americane (50.964 $PPP, 9.713 di  differenza), britanniche (51.431 $PPP, 10.180 di differenza), tedesche (59.987 $PPP, 18.736 di differenza), ... infinitamente lontane dai 69.887 $PPP delle retribuzioni svizzere, quasi 30.000 $PPP di differenza [solo per citare alcuni paesi].
Certo restano più alte di quelle greche, portoghesi, polacche, slovene, slovacche, etc.,, ma non eravamo tra le prime potenze industriali del mondo?

Quelli che abbiamo confrontato sono per giunta solo valori lordi (prima delle tasse);
considerando l'alto cuneo fiscale italiano, sarebbe più interessante prendere le retribuzioni nette: ovviamente il livello di tasse pagate, in ogni paese, dipende dalla tipologia di contribuente, perché a seconda delle sue caratteristiche esistono diverse forme di deduzioni, detrazioni, benefits, assegni integrativi, etc.
Generalmente il più tassato risulta essere il lavoratore single (senza coniuge o figli), mentre il carico fiscale effettivo si riduce all'aumentare della dimensione famigliare.
Possiamo così utilizzare i dati di due tipologie di contribuente, stimate dall'Oecd, il single e per il lavoratore con moglie (non lavoratrice) e due figli (famiglia monoreddito).
Questa è la situazione della famiglia monoreddito:




Le retribuzioni nette italiane scivolano dietro quelle spagnole (32.763 $PPP contro 34.004, 1.242 di differenza), ma restano sopra quelle greche (29.077 $PPP); nel caso di queste retribuzioni nette le differenze viste prima con gli altri paesi aumentano (quasi per tutti): 5.064 $ con la Francia (37.826 le retribuzioni nette francesi), 11.210 $ con quelle americane (43.973 retribuzioni nette), 9.187 $ con quelle britanniche (41.950); nel confronto con la Svizzera si passa addirittura a 34.224 $ di differenza (66.987 $PPP di retribuzioni nette), in pratica le retribuzioni nette svizzere risultano più che doppie rispetto a quelle italiane; scende invece la differenza con quelle tedesche, per il semplice motivo che il cuneo fiscale in Germania è suddiviso in maniera uguale tra azienda e lavoratore: 14.502 $ di differenza (47.265 $).

Questi invece i confronti nel caso del lavoratore single, il più "tartassato":



L'Italia scivola ancora più in basso: 27.808 $ la retribuzione netta media di un lavoratore senza carichi famigliari, poco sopra quelle greche (25.927 $, -1.881 di differenza).
Quelle spagnole valgono 31.037 $ (3.229 più di quelle italiane), 32.762 $ quelle francesi (4.954 in più di quelle italiane), 36.194 $ quelle tedesche (+8.386), 37.899 $ per USA (+10.091), 39.381  $ per quelle britanniche (+11.573), 57.756 $ quelle svizzere (+29.948), anche in questo caso più che doppie rispetto a quelle italiane.

Questa quindi la situazione delle retribuzioni italiane nei confronti internazionali
Ma quali sono le cause di queste basse retribuzioni?

Le cause

Generalmente ne vengono citate due: l'elevato cuneo fiscale sul lavoro italiano, e la bassa produttività. Entrambe vengono anche indicate come cause dell' alto costo del lavoro italiano (causa, secondo molti, della bassa competitività delle nostre imprese).
Possiamo dire fin da ora, che le 'credenze' sull'alto costo del lavoro italiano, sono quasi sempre soltanto "miti"; a basse retribuzioni si associa anche un basso costo del lavoro; ma lo vedremo meglio in seguito.
Molto spesso, infatti, si sente dire: "se le nostre aziende avessero la produttività delle aziende tedesche, allora avremmo anche i salari tedeschi".
Qualcun altro aggiunge anche:"se le nostre aziende avessero il costo del lavoro tedesco avremmo anche la loro competitività.

Proviamo quindi a fare un confronto proprio con la Germania per valutare la verità di queste affermazioni.
Utilizzando i dati Eurostat, prendiamo quindi il costo del lavoro e la produttività per Italia e Germania.
[La produttività è presa come valore aggiunto (al costo dei fattori) per occupato, mentre il costo del lavoro è il costo del personale per ogni dipendente. I dati si riferiscono solo al settore manifatturiero, sia perché più completi, sia perché, volendo associare questo indicatore alla 'competitività' delle imprese sui mercati internazionali, questa riguarda soprattutto questo settore, per ovvi motivi. I dati sono relativi all'anno 2014].



La produttività media delle imprese manifatturiere tedesche (nel 2014) è di 71.507 euro per occupato, quella italiana si ferma a 55.830 euro per occupato. I rispettivi costi per dipendente sono di 53.116 per i dipendenti tedeschi e 41.451 euro per quelli italiani.
Si trova inoltre che il rapporto tra costo del lavoro e produttività è praticamente identico.
Questo primo confronto, sembra quindi confermare quanto l'opinione pubblica (o vox populi) sostiene: in Italia abbiamo una produttività molto più bassa, e quindi è ovvio che i salari italiani siano così bassi.

Ma una prima analisi, fatta sui valori medi, non basta.
Il tessuto produttivo italiano, infatti, è costituito da moltissime imprese piccole e piccolissime, come mostrano i due grafici sotto.





...e considerando che la produttività aumenta generalmente con le dimensioni aziendali...




..è ovvio che le medie dipendano da questa diversa distribuzione, o struttura produttiva.

Per fare una analisi più corretta, occorre quindi estendere il confronto tra produttività e costi del lavoro almeno su aziende delle stesse dimensioni (ecco perché ci siamo serviti dei dati del settore manifatturiero, completi fino a questo livello di "dettaglio").
Abbiamo già mostrato la differente distribuzione nel numero di imprese, qui vediamo il valore aggiunto, in valore assoluto, e secondo la sua distribuzione per dimensione aziendale:





Si noterà che le piccole imprese italiane producono quasi lo stesso valore aggiunto tedesco, mentre il VA crolla per le medie e grandi imprese. 350 i miliardi di VA delle imprese sopra i 250 dipendenti, contro i 68 miliardi italiani.

Valutiamo ora la produttività (valore aggiunto per occupato), e costo del lavoro (per dipendente) secondo questa scomposizione per dimensione d'impresa.
[precisiamo che il confronto tra produttività e costo del lavoro unitario per aziende molto piccole perde quasi di significato, in quanto la prima è calcolata sugli occupati, mentre il secondo sui dipendenti, e ogni "apporto" di personale non dipendente (lo stesso imprenditore ad esempio) falserà questo rapporto. D'ora in avanti escluderemo quindi dal calcolo e dai grafici le aziende con dimensioni sotto i 10 dipendenti. Questa scelta è del resto in linea con la metodologia dei conti nazionali che generalmente distingue tra imprese industriali vere e proprie, sopra i 5 dipendenti, e quelle più piccole, comprese invece nelle 'famiglie produttrici'; categoria, quest'ultima, che per il caso italiano rappresenta il 98% - secondo il numero di imprese - dell'intero tessuto produttivo nazionale].



Come si vede, ad eccezione delle imprese sopra i 250 dipendenti, la produttività delle imprese italiane risulta superiore a quella tedesca.
E per il costo del lavoro e il rapporto costo del lavoro / VA?




Per le imprese con produttività superiore a quella tedesca (come visto tutte quelle sotto i 250 dipendenti) il costo del lavoro è, in valore assoluto, leggermente superiore, ma risulta ben inferiore in rapporto alla produttività (dai 20 dipendenti in su).
Di conseguenza, a quasi tutte le imprese italiane (sopra i 20 dipendenti), resterà una quota della produttività (margine operativo unitario) sempre superiore a quelle tedesche, anche per quelle con produttività più bassa (maggiore dimensione).

Abbiamo quindi trovato che, a parità di dimensione aziendale, la produttività italiana risulta superiore a quella tedesca (ad eccezione delle "grandi imprese"), e che il costo del lavoro in rapporto alla produttività risulta invece ben inferiore.
La cattiva performance della produttività media italiana, sembra quindi dovuta  alla bassa produttività delle imprese maggiori, e alla diversa distribuzione dimensionale; quindi più alla struttura produttiva italiana che alle capacità delle singole imprese (o gruppi di imprese dimensionalmente simili).

Per fare un confronto ancora più completo restano da calcolare i redditi netti, di ogni dipendente, per le diverse tipologie dimensionali, per vedere come incide anche il carico fiscale (cuneo fiscale).
Per farlo, utilizziamo i valori della tassazione globale media per livello di retribuzione forniti da Oecd (i valori sono relativi al 2015, ma possiamo tollerare questa 'imprecisione').
Anche in questo caso, come visto sopra, dovremo farlo su due tipologie di lavoratore differente: il lavoratore single (senza carichi famigliari), e quello con coniuge e 2 figli a carico (famiglia monoreddito).
Questi i risultati:





Come si può vedere, in quasi tutti i casi, le retribuzioni nette italiane sono inferiori a quelle tedesche, anche per quelle imprese delle classi dimensionali che mostravano produttività superiore a quella tedesca (la produttività resta 'visibile' nei grafici come altezza complessiva delle diverse componenti).
Il basso livello dei salari italiani, almeno da quanto indicato in questo confronto, non sembra dovuto quindi alla differenza di produttività, quanto alla diversa 'ripartizione' della produttività prodotta, tra dipendenti e imprese (o come si diceva un tempo, tra 'lavoro' e 'capitale'), ovvero, a quanto sembra, allo scarso potere contrattuale del dipendente italiano.
Questo scarso potere contrattuale opera sia sul livello generale della retribuzione, sia sul modo di 'ripartizione' del cuneo fiscale.
Infatti, le quote di ripartizione del cuneo fiscale "secondo la legge" (le norme fiscali che stabiliscono cosa sia "a carico" del dipendente e cosa sia a carico dell'azienza), è bene sottolinearlo, non hanno alcun significato economico, non contano nulla soprattutto per le tasche del dipendente o della azienda. Quel che conta è come questo "costo aggiuntivo" venga effettivamente ripartito tra dipendente o azienda, in fase di contrattazione, incidendo in misura minore o maggiore sulle retribuzioni o sul costo del lavoro finale.

Siamo partiti dal confronto con la Germania perché, come detto, questa viene spessa presa come termine di paragone, anche nei discorsi comuni, ma da quanto visto in precedenza, le differenze retributive con la Germania non sono nemmeno tra le pi ampie.
Possiamo quindi passare ad un confronto più generale con gli altri paesi.




I grafici qui sopra rappresentano (attraverso i dati Oecd) il rapporto tra il costo del lavoro e il valore aggiunto (e tra retribuzioni lorde e valore aggiunto) così come ottenuto dai dati generali di contabilità nazionale.
Precisiamo subito che questi rapporti non forniscono una rappresentazione del tutto corretta del fenomeno che vogliamo osservare: questi dati generali infatti contengono diversi contributi che 'deformano' i risultati; ad esempio, il valore aggiunto qui considerato contiene anche quello prodotto dagli autonomi – di cui per contro non si registra alcun 'costo del lavoro'; contengono inoltre, sia come 'costo' che come 'prodotto', le retribuzioni dei dipendenti pubblici; questi rapporti quindi richiederebbero quindi diverse 'correzioni', che qui non faremo; ci accontenteremo quindi di qualche valutazione generale.
Come si vede, dal 1970 il costo del lavoro su valore aggiunto è diminuito un po' in tutti i paesi; ma in Italia la diminuzione è stata molto più consistente, e già si partiva da un livello inferiore (qui si fa sentire la più alta percentuale di autonomi che operano nell'economia italiana).
Dal 2000 circa, quindi più o meno dall'ingresso nell'Euro il rapporto costo del lavoro / valore aggiunto, è tornato a crescere (torneremo su questo fenomeno in futuro), ma anche ora risulta tra i più bassi nel confronto.

Per valutare un rapporto costo del lavoro su VA più corretto (rispetto agli errori segnalati sopra) possiamo prendere questi dati limitati al settore istituzionale delle "imprese non finanziarie" (in pratica le industrie – non 'banche' – sopra i 5 dipendenti); purtroppo questi dati sono disponibili solo dal 1995.



Si noti che la diminuzione del rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto qui osservato (da dati di contabilità nazionale) trova conferma anche da un'altra fonte, le indagini Mediobanca sulle imprese italiane, monitorate - attraverso un campione di imprese - fin dagli anni '70.




Si può notare quindi che le imprese italiane hanno beneficiato per lungo tempo di un ampio "sconto" sul costo del lavoro (in confronto alla produttività).

Basso potere contrattuale: perché?

Possono esserci diversi fattori che influenzano questo minore "potere contrattuale" del dipendente italiano (andremo a ricercarne le diverse cause in futuro), ma è ben partire, per ora, dal più semplice e più diretto: i sindacati.

A cosa servono i sindacati?
Lo scopo dei sindacati, secondo la 'tradizione', dovrebbe essere quello di ottenere per i dipendenti le migliori condizioni possibili; difendendo quella che molti considerano la 'parte debole' della contrattazione, quindi, elevando il potere contrattuale dei dipendenti (anche attraverso forme di rivendicazione 'collettive', come gli scioperi).
Molti credono (e in questo caso l'opinione trova conferma in molti dati) che in Italia abbiamo dei sindacati "molto forti", troppo secondo alcuni.
Risulta quindi molto singolare trovare un basso potere contrattuale, all'origine delle basse retribuzioni, insieme a sindacati molto forti. Come si spiega?
All'argomento dedicheremo molte 'lettere' in futuro; per ora, accontentiamoci di proporre la spiegazione più semplice:


  1. I sindacati italiani sono del tutto "incapaci" (nel vero senso della parola) di svolgere questo ruolo e questo compito;
  2. I sindacati italiani, molto spesso, non fanno gli interessi dei lavoratori.


Ma in qualsiasi caso, i dipendenti ne ricevono, e da molto tempo, un danno enorme, perché invece di ottenere le migliori condizioni ottengono condizioni ben inferiori a quelle di altri paesi.

E' ovvio quindi che, se il problema delle basse retribuzioni italiane risiede nei sindacati, la soluzione non può che essere trovata cambiando il sistema sindacale (e di contrattazione).

sabato 12 novembre 2016

Una rapina nella rapina, anzi due.

Abbiamo già spiegato in cosa consiste la rapina pensionistica, e ne parleremo ancora in futuro in maniera approfondita.
All'interno della rapina pensionistica tuttavia, se ne nasconde (ma neanche tanto) un'altra; anzi due.

Qualcuno potrà dire (e dice): "Va bene, le pensioni passate, retributive, erano molto più generose, e quindi dobbiamo coprire questa spesa con alti contributi, e le pensioni contributive future saranno meno generose, ma almeno, visto le pensioni saranno calcolate in base ai contributi versati, con questi alti contributi, avremo pensioni più alte."
Non è nemmeno così, purtroppo. Vediamo perché.

La prima truffa

Le pensioni italiane si basano su un sistema a ripartizione: le pensioni vengono pagate ogni anno dai contributi versati dai lavoratori nello stesso periodo. Gli attuali lavoratori/contribuenti, a loro volta, in futuro, riceveranno pensioni pagate dai futuri lavoratori.
Per questo si parla generalmente di "solidarietà generazionale". Ma è ovvio che in questo senso, proprio in nome di questa 'generosità', ogni contributo pagato dai lavoratori per le pensioni attuali deve anche essere "computato" per la sua futura pensione. Altrimenti sarebbe una truffa.

La spesa pensionistica italiana vale circa 270-280 miliardi, i contributi effettivi pagati dai lavoratori circa 190 miliardi. La differenza, 80-90 miliardi, viene coperta dallo stato, dalla 'fiscalità generale'.. ovvero, sempre dalle tasse dei contribuenti.
In realtà, invece della spesa lorda, bisognerebbe considerare la spesa pensionistica netta, al netto delle tasse pagate dai pensionati, visto che queste non sono altro che "partite di giro".
Questo tasse valgono circa 50 miliardi. Quindi la spesa pensionistica netta è di circa 220-230 miliardi.
Abbiamo quindi comunque un "buco" di 30-40 miliardi pagate da tasse, e non da contributi.

Per molti, ciò è naturale, perché parte della spesa pensionistica comprende prestazioni 'assistenziali', invece che 'previdenziali';
[per prestazioni 'previdenziali' si intendono quelle che seguono dal pagamento di contributi (in questo senso è indifferente se poi queste pensioni siano calcolate con metodo retributivo, contributivo, o con qualsiasi altro metodo); quelle assistenziali invece sono completamente sganciate dai contributi versati].
Anzi, molti sostengono che il problema italiano non sia della 'previdenza', ma della spesa assistenziale, la quale "dovrebbe essere pagata esclusivamente dalla fiscalità generale".
E, secondo loro, bisognerebbe separare meglio i due tipi di spese.

Facciamo prima di tutto notare che tale distinzione è spesso solo di 'comodo', perché dipende dalle regole pensionistiche: chi riceve una pensione "sociale" non è detto che non abbia mai versato contributi, spesso, semplicemente, non è arrivato a quei 15 anni i contributi che definiva il limite minimo - definito in passato - per poter ricevere una pensione di anzianità o di vecchiaia, quindi previdenziale. Ma tale limite sarebbe potuto essere di 10 anni, piuttosto che 20 anni. Come si vede, il risultato, e quindi la distinzione tra 'previdenza' e 'assistenza', dipenderebbe solo da queste regole.
Ma, paradossalmente, si potrebbe 'spingere' l'assistenza sino ad assorbire una quota sempre più alta della spesa totale, e quindi utilizzando una quota sempre più alta di tasse, attraverso la 'fiscalità generale'.
Ma che siano contributi o tasse, queste risorse, questi soldi, sono pagati dai contribuenti, che quindi ne sopportano un sacrificio.
La distinzione tra previdenza e assistenza è quindi solo di comodo, proprio per far apparire la 'vera spesa pensionistica' del tutto in linea con quella di altri paesi.
Scelta di comodo, soprattutto dal punto di vista economico, perché come detto, queste tasse, che pure costituiscono un contributo degli attuali lavoratori alle pensioni attuali, in base alla "solidarietà generazionale", non produrranno in futuro pensioni.
Ecco la truffa.

Questi 30-40 miliardi, pagati ogni anno dai lavoratori, non gli garantiranno pensioni.
Sarebbe meglio, a questo punto, trasformare tutti i "contributi", veri e fiscali, in contributi veri e propri, che si trasformino un domani in pensioni.
Proprio il contrario di quello che si augurano molti.


La seconda truffa

A questa prima truffa se ne aggiunge una seconda, simile nei modi, più piccola di entità, ma per certi versi, più grave.
Se consultiamo i bilanci INPS, presenti e passati, possiamo accorgerci di un fatto curioso.
La Gestione Prestazioni Temporanee, quella che gestisce le prestazioni 'assistenziali' quali la malattia, la cassa integrazione (ordinaria), la maternità, gli assegni famigliari, etc.. è sempre stata in attivo, sia come conto economico che come situazione patrimoniale.




Il risultato d'esercizio della GPT al 2007, prima della crisi, è arrivato addirittura a quasi 9 miliardi, e la situazione patrimoniale sfiora oggi i 190 miliardi. Ce ne sarebbe da finanziare tutti gli interventi per l'emergenza "disoccupazione".. per decenni; e non maniera molto più incisiva di quello che si fa oggi (la spesa per disoccupazione italiana è molto più bassa di quella impiegata da altri paesi).
Questo se il "patrimonio" della GPT..si trovasse veramente nelle sue "casse".
Invece non c'è, questi 190 miliardi non esistono. E il motivo è che sono stati utilizzati nel corso degli anni per le pensioni, nello specifico, dal Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti.
Contrariamente a quello che credono molti, quindi, non sono i contributi pensionistici che finanziano la cassa integrazione, la disoccupazione, etc.. ma i contributi per cassa integrazione, disoccupazione, etc.. che finanziano le pensioni (o almeno è stato così per molto tempo).
Ma come è stato possibile?
Per un "piccolo" articolo della legge che riformò l'INPS nel lontano 1989, l'art. 21 della legge 88, che afferma:

Fondi dei lavoratori dipendenti

1. Nell'ambito del comparto riguardante la gestione dei lavoratori dipendenti, oltre al fondo di cui all'articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1970, n. 639 , è istituita la gestione di cui al successivo articolo 24.
In tale ambito il consiglio di amministrazione può deliberare l'utilizzazione, senza corresponsione di interessi, degli eventuali avanzi di gestione.

Cosa dice in sostanza questo articolo? Che se una qualche gestione all'interno dell'Inps "avanza dei soldi" a fine anno, questi possono essere utilizzati per le pensioni (senza corresponsione di interessi).
Ecco uno strumento perfetto per "finanziarsi gratuitamente". Sì, perché anche in questo caso, i contributi versati per cassa integrazione, malattia, disoccupazione, etc.. anche se utilizzati per pagare le pensioni, non sono considerati 'contributi previdenziali' per chi li ha versati, e quindi non produrranno alcuna pensione futura per chi li ha versati.
Tali 'avanzi' hanno prodotto un enorme debito. Vediamo a quanto ammonta.




Al 2008 aveva superato i 150 miliardi. 150 miliardi...di "generosità", che costituiscono un'ulteriore truffa pensionistica confezionata dallo stato italiano a danno degli attuali contribuenti.
E' del tutto ovvio che, invece di far accumulare alla GPT ogni anno tutti questi avanzi, sarebbe stato possibile diminuire i contributi per queste voci, e aumentare nella stessa misura quelli propriamente previdenziali. I conti alla fine, sarebbero stati gli stessi, ma quei contributi previdenziali in futuro sarebbero diventati pensioni. Ecco perché non è stato fatto.

Dal 2008, poi, con la crisi, la Gestione Prestazioni Temporanee si è trovata nella necessità di dover utilizzare veramente le risorse che incassava per i propri bisogni, per il numero crescente di richieste di cassa integrazione e disoccupazione; quindi gli avanzi si sono ridotti.
Anzi, sappiamo che in molti casi sono dovute intervenire le regioni per finanziare molti interventi 'speciali' (cosa che non sarebbe stata necessaria se la GPT avesse avuto la disponibilità degli oltre 170 miliardi di 'patrimonio').Possiamo inoltre notare che, dal 2008, tale debito ha iniziato a calare.
Se diminuisce un debito, significa che il FPLD ha iniziato a 'rimborsare' quanto ricevuto.
Eppure non esiste nessuna evidenza di questo fatto, almeno leggendo i bilanci.
E questo è un piccolo mistero, al quale l'INPS, da me interpellato, non ha ad oggi saputo dare una risposta.

L'entità di questa secondo truffa è inferiore alla prima, ma per certi versi è più grave.
Difficile infatti stabilire "chi ha versato e cosa" dei soldi prelevati dalla 'fiscalità generale' per finanziare il buco pensionistico. Quindi impossibile far diventare quei pagamenti 'diritti'.
Non così in questo caso.
I contributi versati per la GPT sono personali, si sa chi li ha versati e quanto ha versato, quindi si potrebbe facilmente stabilire si quanto è stato truffato ogni lavoratore con questo sistema.

Ce ne sarebbe per avviare una causa collettiva contro l'INPS e lo stato.
Forse l'INPS fallirebbe, e con esso l'attuale sistema pensionistico, ma sarebbe la cosa migliore e più giusta.

giovedì 10 novembre 2016

L'America ha deciso?

Ora dovremo sorbirci per mesi le analisi di chi vorrà spiegarci perché "l'America ha scelto così, perché ha scelto Trump,... perché l'America non ha voluto la Clinton...perché la Clinton non ha capito l'America...di come l'America è cambiata...di come l'America cambierà..e perché sondaggisti, analisti, opinionisti non hanno capito l'America".
Ma chi è questa signora America? Nessuno.
Questa realtà democratica mitologica, soggetto che decide, che cambia idea, che va capita e compresa, NON ESISTE.
L'altro ieri tanti americani hanno votato per Trump, tanti americani hanno votato per la Clinton (ad essere precisi, quelli che hanno votato per la Clinton era più numerosi di quelli che hanno votato per Trump), questo è quanto; ma le elezioni possono spesso giocarsi sul filo di qualche punto percentuale di votanti, e allora ecco un sistema fortemente maggioritario che in qualsiasi caso ci darà un responso certo. Che possa farci dire: "L'America ha deciso".
E' così? sicuramente no. L'America resta divisa, in milioni di pezzi.
Perché l' America è fatta di 325 milioni di individui diversi (e di questi, poco più di un terzo va in genere a votare per essere parte di questa "America che ha deciso").
E ogni individuo ha interessi, valori, scopi diversi.
Tolta l'America, soggetto inesistente, restano gli individui, soli di fronte al potere dello stato.
Ecco la cosa più importante.
Che il vincitore sia democratico o repubblicano, l'importante è che lo stato non tocchi nemmeno uno dei diritti di questi individui, nemmeno una delle sue libertà.
L'importante è che il potere dello stato sia ben limitato, e che non abbia alcuna possibilità di travalicare questi limiti e confini.
E' così nella "Patria delle libertà"? senz'altro no. Nemmeno in America.
Perché lo scopo dello stato è tutto il contrario di questo.
Ma non voglio addentrarmi in ragionamenti sulla politica americana, che non conosco direttamente, quindi torniamo in Italia. Perché tanto il tema del post riguarda la democrazia, non l'America.
Com'è la situazione in Italia? Drammatica.
Da molto tempo, forse da sempre, lo stato non ha alcun limite.
Può fare ciò che vuole, e lo fa.
E quale potrebbe essere la soluzione a questo problema? La volontà del popolo.
Quella vera, non quella "democratica": la volontà dei milioni di individui che vi abitano.
La volontà di fare, non tanto la volontà di votare.
Se la Volontà del Popolo, principio su cui si fonda la democrazia, ha qualche senso, deve essere nel senso più semplice del termine: ciò che è un paese, la sua grandezza, oppure la sua miseria, lo si deve sempre e soltanto alla volontà delle persone che vi abitano. Alla volontà, principalmente, di imporre a chi è al potere il rispetto delle libertà di ogni individuo, naturali, intangibili e costituzionali.
Non basta aspettare che sia il potere a farlo, autolimitandosi.
Da oltre vent'anni, il principale sport nazionale in Italia sempre essere "prendersela con la classe politica". Ma in realtà la classe politica italiana è solo lo specchio di quello che VUOLE il popolo, niente di più, niente di meno. Ed è diventata la scusa per giustificare le nostre responsabilità, dirette e indirette, in questo disastro; anzi..in questa associazione a delinquere che si chiama Italia.

La volontà delle persone, la loro forza nel combattere le ingiustizie, le loro azioni per difendere i diritti di ognuno.
E' solo questo che può fare grande un paese.

domenica 6 novembre 2016

Il furto a premio, oggi.

versione aggiornata e corretta al 7/11/2016

Dopo avere lasciato la parola all'esimio Bastiat, torniamo ai nostri giorni, e consideriamo come si è svolto il furto a premio, oggi.
Nelle precedenti lettere abbiamo analizzato la rapina pensionistica e la truffa del debito pubblico.
Per entrambe, non si è consumato un semplice furto, in cui lo stato prende a Tizio per dare a Caio, ma un furto indiretto e più 'furbo'. Lo schema è identico per tutti e due, cambia solo la forma, ma non la sostanza.
Ammettiamo che lo stato chieda a Caio del denaro (come prestito, o come contributi previdenziali), sia i prestiti che i contributi previdenziali sono per Caio del risparmio, che Caio investirebbe altrimenti in qualche modo ricevendone , in un certo tempo, un dato rendimento, ammettiamo uguale a 100.
Ma lo stato dice a Caio “dai a me questo risparmio, e invece di darti 100, ti darò 140, o 160 ...o anche 200”. Ovviamente a Caio conviene, perché ne ricaverà un premio di 40, di 60..persino di 100.
Ma come può lo stato pagare a Caio questo premio? come può pagare a Caio un rendimento, per i soldi prestati, più alto di quello che pagherebbe chiunque altro? Lo stato non produce ricchezza, può solo prenderla ad altri. E infatti il premio da dare a Caio, lo stato lo prende di nuovo a Tizio, attraverso le tasse.

Il risultato, come vedete, non è molto diverso da quello di un furto diretto: lo stato regala a Caio dei soldi, prendendoli a Tizio; ma il fatto che abbia ottenuto questo denaro per un prestito fatto allo stato, fa nascere un diritto. E come puoi toccare un diritto?
E' giusto che Caio riceva un interesse per i soldi prestati allo stato.
E' giusto che Caio riceva una pensione, per i contributi che ha versato a questo scopo.
Ma tutto dipende dall'entità, dal valore, dalla grandezza dell'interesse ricevuto, e della pensione pagata.
Non è giusto che Caio riceva interessi troppo alti, o pensioni troppo generose, che devono pagare altri.
Se accade ciò, lo stato ha già mancato al suo scopo dichiarato: fornire ai cittadini servizi al prezzo più economico. E al prezzo più economico, per chi lo deve pagare, s'intende.
Non avrebbe senso che lo stato si occupi di previdenza, se il costo di questo servizio risultasse troppo alto per i contribuenti.
Non avrebbe senso che lo stato chieda dei prestiti per finanziare qualche spesa, se gli interessi che dovrà pagare saranno troppo alti per i contribuenti.
Ma è proprio quello che è accaduto in Italia.
E perché è accaduto, l'abbiamo già spiegato: bisogna abbandonare l'inutile definizione di uno stato che si occupa del bene comune, e che agisce in vista di questo.
Lo stato è una associazione a delinquere, così va studiata e trattata. Una associazione a delinquere con ladri, truffatori, complici e mandanti.
In questo furto a premio, lo scopo dello stato era regalare soldi a qualcuno, prendendoli ad altri. Niente di diverso.

Ma proviamo a fare qualche simulazione riguardo a questo furto a premio.

Ammettiamo che un Caio qualsiasi abbia iniziato a lavorare nel 1960; ogni anno ha un certo reddito, e di questo reddito 'risparmia' ogni anno una certa quota, per esempio del 10% (circa uguale alla reale propensione media al risparmio per quegli anni, come ricavabile da diverse fonti).
Ogni anno quel risparmio darà a Caio un certo rendimento, secondo un certo tasso d'interesse.
Immaginiamo che ogni anno Caio reinvesta tutto il capitale accumulato, aggiungendoci la quota di risparmio di quell'anno, e così per molti anni, decenni; vogliamo vedere alla fine quanto capitale avrà accumulato, rivalutandolo ovviamente secondo il potere d'acquisto perso per via dell'inflazione durante quel periodo.
Poi dovremo confrontare questo capitale con quello ottenuto invece considerando un premio dato a Caio dallo stato per il suo denaro.
Ma prima dovremmo conoscere il reddito di Caio. Per questo prendiamo il reddito medio per adulto (ovvero per chi ha qualche forma di reddito, utilizzando i dati presi dal database WID).
Con questi dati, il nostro Caio aveva nel 1960 un reddito di circa 340 euro, che, a valori del 2014, sono circa 11 mila euro, nel 1970 guadagnava circa 17 mila euro (sempre a valori del 2014), nel 1980 23 mila euro. Solo per citare qualche cifra. E come detto, su questi redditi risparmia ogni anno il 10%, ovvero circa 1100 euro nel 1960 (a valori 2014), 1700 nel 1970, e così via.
Dovremmo però anche sapere quale possa essere il tasso d'interesse naturale, quello che Caio potrebbe avere senza il premio dello stato  (mi scuseranno gli economisti, il tasso d'interesse naturale definito qui non sarà forse quello trattato da loro).
Questo è ben difficile da conoscere (se qualche economista vorrà suggerircelo, in futuro potremo fare altre simulazioni), anche perché quando lo stato (o altre istituzioni con identico potere) intervengono nel campo finanziario nulla può rimanere come prima. L'intervento di un grande regolatore (che sia lo stato, o una banca centrale) può abbassare tutti tassi d'interesse così come può alzarli.
Proviamo quindi a considerare diversi tassi di interesse naturali, del 2, 3 e 4%.
Per ora studiamo il caso della truffa del debito, e come interessi considereremo quelli già visti dei titoli di stato.



Immaginiamo quindi che fino al 1980 gli interessi che pagava lo stato coincidessero con quelli del tasso d'interesse naturale, poi questo interesse cresce fino ad un 6% nel 1987, e così si mantiene abbastanza costante fino al 1994 (trascuriamo il picco del 1992), per poi diminuire e tornare naturale attorno al 2000.
Come si può vedere il periodo di questo premio non è poi molto lungo, ma vedremo che basterà.

Investendo il 10% del suo reddito annuale, al tasso del 2%, il nostro Caio otterrebbe al 2014 un capitale di circa 220 mila euro.
Se invece quel risparmio avesse ottenuto il 'premio' degli interessi più elevati dei titoli di stato, il capitale finale sarebbe di circa 310 mila, con una differenza di quasi 90mila euro, in percentuale, un premio di quasi il 40%.
Possiamo seguire meglio l'andamento di questo premio con questo grafico.



Fino al 1980, come detto, gli interessi sono identici, e quindi non c'è alcun premio; poi gli interessi statali iniziano a crescere fino al 6%. Cresce quindi il premio (ovvero la differenza di capitale ottenuto), e con esso il premio in percentuale.
Si noti che la massima percentuale si ha finché gli interessi statali sono più alti di quello che abbiamo considerato come naturale (il premio in quel momento è di circa 65mila euro, con una percentuale massima del 50%: il suo capitale ha reso il 50% in più); ma anche dopo non si annulla, perché i maggiori capitali ottenuti fino a quel momento, quel premio, continuerà a generare rendimenti anche con interessi tornati a livello naturale.

Vediamo ora lo stesso schema, con tassi naturale del 3 e del 4%.



Con un interesse naturale al 3% il premio (la differenza) si ridurrebbe a poco più di 80 mila, circa il 30% finale (55 mila all'anno 2000, fine del periodo 'a premio', con % massima del 35%).



Con un interesse naturale al 4% il premio (la differenza) si ridurrebbe a poco più di 75 mila, circa il 20% finale (45 mila all'anno 2000, fine del periodo 'a premio', con % massima del 23%).

Facciamo un'altra osservazione: ovviamente il premio percentuale non dipende dall'entità del reddito, e quindi del risparmio accantonato, un 50% di premio, resta un 50% di premio, sia che il reddito sia quello medio, sia che valga 10 volte tanto, ma il valore assoluto è diverso eccome, perché il capitale finale sarà dieci volte più grande: 80 mila euro di premio, diventeranno 800 mila euro di premio. E questo è ben differente per chi, quel premio, dovrà pagarlo.




Ora vediamo il premio nel caso della rapina pensionistica.
In questo caso, il periodo sarà ridotto a 35 anni (gli anni che erano necessari fino a poco tempo fa per accedere alla pensione), Caio inizierà a lavorare nel 1960 e andrà in pensione al 1995;
poi dobbiamo considerare un rendimento superiore a quello naturale per tutto il periodo.
Ci limiteremo al caso di un tasso complessivo reale del 7% (superiore di 4 pp rispetto ad un interesse naturale del 3%).
Considereremo inoltre una aliquota pensionistica media (la quota di reddito accantonata) del 25% su tutto il periodo (non molto lontana dalla realtà).



Con queste ipotesi il capitale finale arriverebbe a circa 580 mila euro (a valori sempre del 2014), che diviso per circa 25 anni (circa la durata media delle pensioni in pagamento negli ultimi anni) fanno circa 23mila euro, poco più dell'80% del reddito medio per l'anno finale 1995.
L'80% corrisponde al tasso di sostituzione (rapporto tra pensione e ultimo reddito) generalmente ottenuto nel sistema retributivo.
[Ovviamente le pensioni nel sistema pensionistico retributivo (il vecchio sistema) non erano calcolate con questo 'rendimento ipotetico' ma solo in base all'ultima "retribuzione" (e al numero di anni di contribuzione), ma visto che il tasso di sostituzione che otteniamo è prossimo a quello del sistema retributivo, possiamo considerare abbastanza buone le nostre ipotesi].
Il premio, con queste ipotesi, per un reddito medio, arriverebbe al 1995 a circa 280 mila euro, con un premio % prossimo al 90%.


Anche in questo caso, prendendo in considerazione un reddito molto più alto di quello medio, si otterrebbe un premio molto più alto, proporzionalmente al livello di reddito.
Un reddito dieci volte quello medio, arriverebbe ad un premio di quasi 3 milioni di euro.



Come si può vedere, quindi, sebbene le nostre siano solo ipotesi teoriche, si può vedere di quale entità possa essere il premio regalato o tramite la truffa del debito pubblico, o tramite la rapina pensionistica.
E questo premio è tutto ciò che spiega l'enorme spesa per pensioni o per interessi a carico dei contribuenti attuali.

Notare che anche per questo tipo di furto a premio, molti dicono 'basta non abusarne': "Forse si è lasciato troppo spazio alla rapina; ... Vediamo, esaminiamo, bilanciamo i conti ...." oggi è di moda questo termine: bisogna renderla "sostenibile". Il che vuol dire, "riduciamo un po' la rapina, altrimenti rischia di saltare tutto il sistema".
Ma una rapina resta una rapina, anche quando si decide di rubare un po' meno... solo per poter rubare più a lungo.

venerdì 4 novembre 2016

Il furto a premio, ieri.

Oggi vi propongo una lettura, un 'classico' di Frédéric Bastiat; il "furto a premio", dai Sofismi Economici. Buona lettura.

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Poiché l’occasione ci è stata così benignamente offerta, studiamo il furto a premio.
Ciò che se ne può dire si può applicare altrettanto bene al furto a tariffa; e poiché questo è un po’ meglio mascherato, la truffa diretta aiuterà a comprendere la truffa indiretta.
Lo spirito procede così dal semplice al complesso.

Ma non esiste qualche tipo di furto ancora più semplice? Certo che esiste: il furto sulla strada principale: manca solo che sia legalizzato, monopolizzato, o, come si dice oggi, organizzato.
Ora, ecco quello che leggo in un racconto di viaggi:
«Quando arrivammo al regno di A..., tutte le industrie si dicevano sofferenti. L’agricoltura gemeva, la fabbrica si doleva, il commercio mormorava, la marina brontolava, e il governo non sapeva chi stare a sentire. Dapprima ebbe l’idea di tassare per bene tutti gli scontenti, e di distribuire tra di loro il prodotto di queste tasse, dopo aver preso la propria parte: questo sarebbe stato come, nella nostra cara Spagna, la lotteria. Voi siete mille, lo Stato prende una piastra a ciascuno; poi sottilmente fa sparire di nascosto 250 piastre, e ne distribuisce 750, in lotti più o meno grandi, tra i giocatori. Il bravo Hidalgo che riceve tre quarti di piastra, dimenticando che ha dato una piastra intera, è fuori di sé per la gioia, e corre a spendere i suoi 15 reali all’osteria. Sarebbe stato pure come quello che succede in Francia. Comunque sia, per quanto barbaro fosse il paese, il governo non ebbe tanta fiducia nella stupidità dei suoi governati per fare accettare loro delle così singolari protezioni; ed ecco quello che immaginò:
Il paese era percorso da molte strade. Il governo le fece esattamente chilometrare, poi disse all’agricoltore: «Tutto ciò che potrai rubare a chi passa fra questi due limiti è tuo: questo ti valga come premio, come protezione, come incoraggiamento».
In seguito, assegnò ad ogni industriale, ad ogni armatore, una porzione della strada da utilizzare, secondo questa formula:
Dono tibi et concedo
Virtutem et possantiam
Volandi,
Predandi,
Derobandi,
Truffandi,
Et scroccandi,
Impune per totam istam
Viam.
Ora, successe che i nativi del regno di A... si sono oggi così familiarizzati con questo ordinamento, così abituati a tener conto solo di ciò che rubano e non di ciò che viene rubato loro, sono così profondamente inclini a considerare la preda solo dal punto di vista del predatore, che considerano come un profitto nazionale la somma di tutti i furti particolari, e rifiutano di rinunciare ad un sistema di protezione al di fuori del quale, essi dicono, nessuna industria potrebbe sopravvivere.
Voi protestate? Non è possibile, dite, che tutto un popolo consenta a vedere un sovrappiù di ricchezze in ciò che gli abitanti si rubano a vicenda?
E perché no? Abbiamo in Francia questa stessa convinzione, e ogni giorno vi organizziamo e perfezioniamo il furto reciproco sotto il nome di premi e tariffe protettrici.
No, non esageriamo per niente: d’accordo, riguardo al modo di riscossione e alle circostanze collaterali, il sistema del regno di A... può esser peggiore del nostro; ma diciamo anche che, riguardo ai principi e agli effetti necessari, non vi è un atomo di differenza fra tutti questi tipi di furti legalmente organizzati per fornire profitti supplementari all’industria.
Notate anche che se il furto sulla strada principale presenta qualche inconveniente di realizzazione, ha però dei vantaggi che non si trovano nel furto a tariffa.
Per esempio: si può fare una ripartizione equa fra tutti i produttori. Non è così invece dei diritti doganali. Questi, per loro natura, non possono proteggere certe classi della società, come gli artigiani, i commercianti, gli uomini di lettere, quelli di legge, i militari, i proletari, etc., etc.
Vero è che il furto a premio si presta anche a suddivisioni infinite, e sotto questo aspetto non è meno imperfetto del furto sulla strada principale; ma d’altra parte conduce spesso a risultati così bizzarri, così sciocchi, che i nativi del regno di A... avrebbero ben ragione a deriderli.
Ciò che il derubato perde nel furto sulla strada maestra è guadagnato dal ladro. Ma l’oggetto rubato resta almeno nel paese. Sotto il regime del furto a premio invece ciò che l’imposta sottrae ai francesi è data spesso ai cinesi, agli ottentotti, ai cafri, agli algonquini; ed ecco come:
Una pezza di stoffa vale cento franchi a Bordeaux. È impossibile venderla al di sotto di questo prezzo senza perderci; impossibile venderla al di sopra di quel prezzo, la concorrenza fra i commercianti vi si oppone. In queste circostanze, se un francese si presenta per avere questa stoffa, deve pagarla cento franchi, o deve farne a meno. Ma se è un inglese, allora il governo interviene, e dice al commerciante: «Vendi la tua stoffa, io ti farò dare venti franchi dai contribuenti». Il mercante, che non vuole né può ottenere che cento franchi dalla sua stoffa, lo dà all’inglese per 80 franchi. Questa somma, aggiunta ai 20 franchi, prodotto del furto a premio, fa tornare giusto il suo conto. È esattamente come se i contribuenti avessero dato 20 franchi all’inglese, sotto la condizione di poter comprare stoffa francese con 20 franchi di sconto su quello che costa a noi stessi. Dunque il furto a premio ha questo di singolare, che i derubati sono nel paese che lo sopporta, e i derubanti sulla superficie del globo.
È veramente miracoloso che si persista a considerare per dimostrata questa proposizione: Tutto ciò che l’individuo ruba alla massa è un guadagno generale. Il moto perpetuo, la pietra filosofale, la quadratura del cerchio sono caduti in oblio, ma la teoria del Progresso col furto è ancora in grande onore. A priori si sarebbe potuto credere che di tutte le puerilità questa fosse la meno vitale.
C’è chi ci dice: «Voi siete dunque i partigiani del laissez passer? Economisti della vecchia scuola di Smith e di Say, non volete dunque l’organizzazione del lavoro?» Eh! Signori, organizzate il lavoro come vi pare, ma noi controlleremo che non siate voi ad organizzare il furto.
E molti altri ci ripetono: «Premi, tariffe, tutto ciò ha potuto essere esagerato. Bisogna usarne senza abusarne. Una saggia libertà, combinata con una protezione moderata, ecco ciò che reclamano gli uomini seri e pratici: guardiamoci dai principi assoluti».
Questo è precisamente ciò che, secondo il viaggiatore spagnolo, veniva detto nel regno di A..: «Il furto sulla strada principale, dicevano i saggi, non è né buono né cattivo: dipende dalle circostanze. Si tratta solo di ponderare bene le cose, e di pagar bene noi ufficiali, per quest’opera di ponderazione. Forse si è lasciato troppo spazio alla rapina; forse non abbastanza. Vediamo, esaminiamo, bilanciamo i conti di ogni lavoratore. A quelli che non guadagnano abbastanza noi daremo un poco più di strada da utilizzare. Per quelli che guadagnano troppo ridurremo le ore, i giorni, o mesi di rapina».
Coloro che parlavano così, acquistarono una grande fama di moderazione, di prudenza, e di saggezza. Essi non mancavano mai di giungere alle più alte cariche dello Stato.
Quanto a quelli che dicevano: «Eliminiamo le ingiustizie e le frazioni d’ingiustizia; non tolleriamo il furto, né il mezzo-furto, e nemmeno il quarto di furto», costoro passavano per ideologi, sognatori noiosi che ripetevano sempre la stessa cosa. Il popolo, del resto, trovava i loro ragionamenti troppo alla sua portata. Come si può credere vero ciò che è così semplice?

sabato 29 ottobre 2016

Sul contributo straniero alla crescita


Visto che negli ultimi giorni si è parlato molto di stranieri, vorrei interrompere le analisi sulla spesa pubblica italiana (la prossima tratterà la spesa per il personale) per anticipare una discussione su questo tema, in particolare sul contributo straniero alla crescita italiana.
E' sempre più frequente infatti leggere sulla stampa nazionale qualche articolo sulla “ricchezza prodotta dagli stranieri”, con tanto di dati precisi sul 'contributo netto' dato alle casse dello stato da parte degli stranieri.
La maggior parte di questi articoli utilizza le stime effettuate da Fondazione Moressa (FM, d'ora in poi), istituto nato qualche anno fa proprio per studiare l’ ‘economia dell’immigrazione’.
Qui possiamo vedere credo l’ultima stima completa disponibile di FM, sulla 'ricchezza prodotta dagli stranieri', riferita al 2013.


Come si può vedere, secondo queste stime, gli stranieri contribuiscono (tra tasse e contributi previdenziali) per 16,6 miliardi, e ‘consumano’ spesa pubblica per 13,5 miliardi, per un ‘saldo netto’ di 3,1 miliardi di euro.
Il ‘bilancio’ di FM viene spesso presentato come ‘contributo netto’ degli stranieri all’economia italiana; in realtà - anche prendendolo per buono - rappresenterebbe soltanto il contributo alle casse dello stato.
Riguardo l’economia in generale bisognerebbe anche considerare il valore delle rimesse degli stranieri verso i paesi d'origine, perché sono ‘risorse’ che ogni anno perdiamo.
Nel 2013 ammontavano a 5,5 miliardi, ‘mangiandosi’ quindi tutto il presunto ‘attivo’ del contributo alle casse dello stato.

Tempo fa, al fine di comprendere meglio questi numeri, ho richiesto e ricevuto da Fondazione Moressa un rapporto che spiega in maniera più dettagliata il metodo da loro utilizzato per ottenere queste cifre (la tabella qui sopra è tratta da questo rapporto).
Analizzate le loro stime, ho inviato a FM qualche mia considerazione;  purtroppo, ad oggi, non ho ancora ricevuto una risposta.

Vorrei qui analizzare le stime di FM, discutendone prima di tutto il metodo utilizzato.


Considerazioni generali sulla creazione della ricchezza

Parto da questa considerazione: trovo del tutto privo di senso voler ricavare il “contributo degli stranieri all’economia (o alla crescita dell’economia) italiana” (o anche solo il contributo ai bilanci pubblici) con calcoli di questo tipo, relativi al saldo tra ‘entrate’ e ‘uscite’, ovvero ricavando un “residuo fiscale” degli stranieri. 
Questi numeri potranno avere un senso ‘contabile’, non ne hanno, a parere mio, da un punto di vista ‘economico’. Spiego meglio perché.
Si dice spesso che gli stranieri sono ‘risorse’, ed è senz’altro vero; come lo è qualsiasi persona. Ogni persona è una ‘risorsa umana’, come dicono gli economisti. Ma la ricchezza che tale ‘risorsa’ potrà creare, al pari di qualsiasi altra risorsa (materiale, finanziaria, etc..) dipende molto da COME verrà impiegata.
L’economia non cerca solo di impiegare “risorse”, cerca di impiegarle nel miglior modo possibile, nel modo più “economico” possibile, ovvero nella maniera che produca “le maggiori utilità, col minimo sforzo”.
Questo aumento di produttività è tutto ciò che spiega - e può produrre - la crescita economica di un paese o di una economia, e quindi il maggior benessere per un certo numero di individui.
Ciò vale anche per l’impiego degli stranieri nell'economia italiana. Il fatto che siano ‘occupati’, che producano ‘valore aggiunto’ e ‘reddito’ non basta per concludere l’analisi del contributo dato alla crescita dell’economia.
Bisognerebbe essere in grado di capire se l’impiego di queste risorse ha contribuito ad aumentare la produttività, la ricchezza, il benessere generale.
Bisognerebbe capire se l’impiego di queste risorse non ha invece semplicemente sostituito l’impiego di altre risorse, e quali effetti ha determinato questa ‘sostituzione’.

Facciamo un esempio molto concreto: una donna, italiana, una madre di famiglia, non lavora; avrebbe anche l’occasione di avere una occupazione, full-time o part-time, ma per farlo dovrebbe trovare qualcun altro che accudisca i figli, e faccia altre faccende domestiche al suo posto; ammettiamo che possa prendere una ‘domestica’ italiana, ma le costerebbe troppo; non avrebbe convenienza a lavorare perché i suoi guadagni sarebbero inferiori a quanto dovrebbe pagare questa domestica. Ad un certo punto, trova invece una ‘domestica’ straniera, che chiede meno, che è più economica. E così diventa per lei conveniente lavorare: così vi sono due occupate in più, entrambe più soddisfatte, e anche chi ha potuto impiegare la donna italiana è senz’altro più soddisfatto. Il reddito della ‘domestica’ deriverà da quello della donna italiana, che ne ha comunque un guadagno, e il suo reddito deriva dai ricavi della impresa che ha deciso di impiegarla. Oltre alla maggiore occupazione si sarà quindi prodotta una migliore ‘allocazione delle risorse’.
Ma non sempre accade questo.
Ecco, bisogna capire se l’impiego di ‘risorse straniere’ segua sempre casi come questo, oppure no.
Tale analisi però è molto complessa, deve analizzare la crescita globale di diverse variabili economiche, e, essendo il risultato di diversi fattori, sarebbe comunque molto difficile ottenere un risultato univoco e definitivo sulla ‘ricchezza prodotta dagli stranieri’.
Qui, in questo post, non tenteremo nulla di questo tipo, mi limiterò invece a discutere quanto siano credibili e corrette le stime di FM.

Torniamo quindi ai ‘bilanci’ di Fondazione Moressa.
Leggendo i vari rapporti prodotti da FM è ben chiara l’intenzione che li anima: combattere il “razzismo” contro gli stranieri, dimostrando che il loro contributo all’economia italiana è considerevole.
Intenzione lodevole, ma a parer mio errata e pericolosa.
Perché i risultati ottenuti e diffusi da FM producono un “razzismo” al contrario, a favore degli stranieri ma contro gli italiani.
Su cosa si basa infatti il razzismo? Sull’idea che un certo gruppo sociale sia migliore, ‘speciale’, rispetto ad altri. E proprio questo sembra essere il risultato della ‘propaganda’ creata da FM: gli stranieri contribuiscono più di quanto costano! Cosa che agli italiani, evidentemente, non riesce; altrimenti avremmo dei bilanci pubblici in continuo avanzo.
Le buone intenzioni di FM, sono quindi pessime nei risultati; soprattutto perché per raggiungere questi risultati è costretta a creare dei ‘bilanci falsi’.
E’ così. E non può essere che così.
Domandiamoci infatti: se dovessimo scoprire che i ‘residui fiscali’ degli stranieri sono negativi, ovvero che gli stranieri ‘consumano’ più spesa pubblica delle entrate che versano, dovremmo sorprenderci? A mio parere, no. Affatto. Sarebbe anzi un risultato del tutto scontato.
Qual è la funzione della spesa pubblica? Ridistribuire risorse economiche. Si può essere contrari, criticarne efficienza, valutare sprechi e difetti, ma questa è.
La principale funzione di ridistribuzione che lo stato opera avviene attraverso la previdenza:
i lavoratori contribuiscono mentre sono attivi, e ‘consumano’ spesa previdenziale quando sono pensionati. Da questo punto di vista è quindi del tutto ovvio che i ‘residui fiscali’ dei lavoratori siano positivi, mentre quelli dei pensionati siano negativi.
Ed è del tutto ovvio che gli stranieri che sono mediamente più giovani degli italiani e sono in Italia da pochi anni, ‘consumino’ meno spesa pensionistica.
Ma la funzione ridistributiva dello stato non si esaurisce nella previdenza; lo stato ridistribuisce attraverso la sanità, l’educazione, la spesa sociale non previdenziale, etc; in genere, attraverso qualsiasi funzione di spesa. E ridistribuisce, in genere, da chi ha redditi elevati a chi ha redditi più bassi (non parleremo ora di certe “anomalie” della spesa pubblica italiana che hanno invertito questo processo, ma la direzione ‘normale’ della ridistribuzione è in genere quella).
Ora, gli stranieri, oltre ad essere più giovani,  hanno anche redditi più bassi degli italiani. Quindi dovrebbero ‘consumare’ spesa pubblica in misura maggiore alle entrate versate.
Ed è così infatti. Lo dimostreremo costruendo delle stime alternative a quelle di FM.

Le stime di FM si basano su due diversi metodi: un primo metodo, valuta il consumo di spesa pubblica “a costi standard” (sono i risultati più diffusi dalla stampa, quelli relativi alla tabella iniziale); un secondo metodo analizza solo la “spesa marginale” degli stranieri.
Partiamo dal primo metodo


I 'bilanci' degli stranieri 'a costi standard'



Riportiamo nuovamente la tabella pubblicata all’inizio, per maggiore comodità.
Le entrate totali sono stimate in 16,6 miliardi. Le uscite sono invece di 13,5 miliardi.

Mettiamo per ora da parte le stime per le entrate e concentriamoci sulla spesa, che trovo criticabile fin nel criteri utilizzati.

La spesa pubblica degli stranieri

Le stime di FM prevedono un ‘consumo’ di sanità di 3,9 miliardi, di 3,6 per la scuola, 600 milioni per i servizi sociali, 400 milioni per la casa, 1,9 miliardi per la giustizia (tribunali e carceri), 1 miliardo di spesa del Ministero dell’Interno (principalmente per la spesa relativa alla gestione ‘migranti’), e infine 2,1 miliardi di trasferimenti economici diretti (che comprendono pensioni, assegni ai nuclei famigliari, sostegno al redditi, etc..).

Tempo fa ho scoperto un’altra stima relativa alla 'spesa pubblica' per gli stranieri, proveniente dal Centro Studi Impresa Lavoro. 
Riporto qui sotto i suoi risultati.


Sostanzialmente, i numeri su entrate e uscite del CSIL non si discostano molto da quelle di FM, ma considerano anche un ‘debito implicito previdenziale’, ovvero il costo delle future spese previdenziali per gli stranieri ‘attualizzate’ ad oggi.
In questo modo, il saldo risulta negativo per 5 miliardi.

Tornando alla spesa stimata da FM, notiamo poi che questa riguarda soltanto la spesa che gli stranieri ‘consumano’ direttamente, ovvero quella parte di spesa considerata ‘individuale’.
Ma è corretto considerare soltanto quella spesa?
Diamo un’occhiata a come era composta la spesa pubblica nel 2013 (anno considerato da FM).
La spesa totale della PA per il 2013 è stata di quasi 820 miliardi.
Qui il dettaglio per tipo di aggregato.




E qui il dettaglio della spesa per funzione (dove si è specificata meglio la spesa sociale).



Le funzioni di spesa ‘in blu’ sono quelle la cui spesa ha carattere ‘collettivo’, quelle ‘in verde’ hanno carattere ‘individuale’. La spesa per Istruzione, ad esempio, viene erogata a singoli utenti; la spesa per la Difesa è fatta per fornire ‘utilità’ alla collettività in generale.

Ebbene, i conti di FM, come detto, imputano agli stranieri soltanto la ‘spesa individuale’ da questi consumata. E il resto della spesa, quella collettiva?
Visto che fornisce ‘utilità’ all'intera collettività, dovrebbe essere ripartita proporzionalmente su di essa. Non avrebbe senso infatti costruire dei ‘bilanci sbilanciati’ in cui il totale della spesa non equilibra il totale delle entrate.
In alternativa, se si volesse considerare solo la spesa individuale consumata, tale metodo non dovrebbe essere adottato solo per gli stranieri; sarebbe quindi utili effettuare un confronto con i ‘residui fiscali’ degli italiani. Ed è proprio quello che tenteremo.
Ci è sembrato quindi corretto costruire le nostre stime considerando tre gruppi: gli anziani/pensionati (principali consumatori di spesa pensionistica), gli stranieri e i lavoratori italiani (in modo che quest’ultimo gruppo abbia caratteristiche demografiche simili a quello degli stranieri).
Per questi tre gruppi costruiremo i ‘residui fiscali’, considerando prima solo la spesa individuale (ovvero delle funzioni ‘in verde’), e poi l’intera spesa pubblica.

Vediamo innanzitutto le caratteristiche di questi 3 gruppi.
I pensionati italiani al 2013 erano circa 16 milioni. Gli stranieri residenti in Italia a fine 2013 quasi 5 milioni (4,922 milioni). La popolazione residente quasi 60,8 milioni (60,783).
Il gruppo ‘residuale’ di lavoratori italiani è di quasi 40 milioni di individui (39,860 milioni).

Qui una rappresentazione della distribuzione per età di stranieri e italiani, che mette appunto in evidenza l’età media più giovane degli stranieri.


Come si nota, la percentuale di stranieri tra la popolazione anziana è trascurabile.

Verifichiamo ora le singole voci di spesa della stima di FM.

La spesa sanitaria

FM stima per gli stranieri un consumo di spesa sanitaria di 3,9 miliardi per il 2013.
Io penso che questa stima sia troppo bassa.
Il consumo di sanità varia generalmente secondo il sesso e secondo l’età.
Un esempio dei profili del consumo sanitario in base all’età si può ritrovare nelle analisi annuali del Mef sulla spesa previdenziale e sanitaria “tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”. 
Eccone un esempio.


La spesa totale 2013 per la Sanità è stata di circa 115 miliardi (come da tabella sopra).
La popolazione alla fine dello stesso anno era di circa 60,8 milioni.
Ne risulta una spesa pro capite media di quasi 1900 euro.
Utilizzeremo questa spesa pro capite media per il 2013.
Per i profili di consumo sanitario per età, utilizzeremo i dati di uno studio relativo ai consumi in regione Lombardia (ipotizzando che si mantengano gli stessi profili  - % rispetto alla media - su tutto il territorio nazionale).
Attraverso i dati sulla popolazione per stranieri e italiani (DemoIstat) possiamo calcolare la spesa sanitaria per classe di età, e quindi la spesa totale per ogni gruppo.
Per il gruppo dei pensionati considereremo la classe degli over 65 (16,3 milioni, circa uguale ai pensionati totali).



Notiamo subito che la spesa sanitaria ‘consumata’ dagli stranieri con questo metodo risulterebbe di circa 5,6 miliardi, superiore alle stime di FM.


Il gruppo degli italiani più giovani (under 65) ‘consuma’ quasi 53 miliardi di spesa sanitaria, il gruppo più anziano poco più di 56 miliardi.
E’ utile confrontare questi numeri con la quota relativa sulla popolazione totale.



Gli anziani, che sono il 26,3% dei residenti totali consumano quasi il 50% della spesa sanitaria totale; gli stranieri, che rappresentano l’8,1% consumano il  4,9% di spesa (per via della minore anzianità); il resto della popolazione italiana (65,6%) il 46,1% della spesa.

La spesa per istruzione

Secondo FM la spesa d’istruzione ‘consumata’ dagli stranieri è stata nel 2013 di 3,6 miliardi.
Per verificare questa stima ricaveremo le spese pro capite da dati di fonte Oecd, per le diverse componenti di questa spesa (ovvero, i vari livelli di istruzione), applicandoli ai dati Istat sugli studenti italiani e stranieri dei vari livelli. 
La spesa per istruzione nel 2013 è stata di quasi 66 miliardi, 6.818 euro per studente; nel dettaglio: 6.387 euro per studenti della primaria o scuola dell’infanzia, 7.104 per la scuola secondaria, 3.594 per il livello universitario (terziario), 581 euro per altre spese connesse all’istruzione.




Usando questi dati troviamo un ‘consumo’ in Istruzione di 5,64 miliardi per gli stranieri e di 60,27 miliardi per gli italiani. Si noti che in percentuale la spesa degli stranieri è leggermente superiore alla sua percentuale rispetto alla popolazione, visto la maggior concentrazione degli stranieri tra le fasce di età più giovani.

Altre spese individuali

Restano da ripartire le altre funzioni di spesa individuali: “attività ricreative, culturali e di culto” e le spese sociali. Ad esclusione delle spese prettamente pensionistiche (pensioni di vecchiaia, superstiti e invalidità) che saranno attribuite alla categoria dei pensionati (trascurando la spesa che FM considera per gli stranieri), ci limitiamo a suddividere queste spese ‘residuali’ in maniera proporzionale al peso dei tre gruppi sul totale della popolazione. 
Come visto gli stranieri rappresentano l’ 8,1% dei residenti, gli anziani il 26,3% e gli italiani attivi il 65,6%. Considerando soltanto stranieri e italiani attivi le rispettiva percentuali sarebbero 11% e 89%.
Faremo forse una suddivisione più accurata, indagando altre fonti, in futuro.
Facciamo notare che questa suddivisione ‘proporzionale’ per il consumo individuale di ‘spesa sociale’ da parte degli stranieri, rappresenta una ipotesi ‘minima’: avendo generalmente redditi più bassi, e un maggior rischio di trovarsi in uno stato di povertà (relativa o assoluta), il consumo di ‘spesa sociale’ degli stranieri dovrebbe essere in percentuale maggiore rispetto a quello del resto della popolazione italiana, e quindi questa spesa dovrebbe essere più alta.
La suddivisione della spesa ‘individuale’ può essere così riassunta.



Come si vede, anche con questo metodo la spesa attribuita agli stranieri non è molto differente da quella stimata da FM, 16,6 miliardi contro 13,5. E la differenza di 3,1 miliardi deriva dalla maggior spesa stimata per sanità e istruzione, a dimostrazione che il metodo usato per la spesa individuale ‘residuale’ non porta a risultati molto differenti da quelli di FM.
A questo punto però, restano ancora da suddividere quasi 300 miliardi di spesa ‘collettiva’ (288). Se lasciati fuori dai conteggi porterebbe inevitabilmente ad un ‘buco’ nel saldo complessivo entrate/uscite.

Visto che questa spesa dovrebbe fornire ‘utilità’ in maniera indifferenziata per la collettività, proviamo a suddividere questa spesa ‘collettiva’ secondo il peso relativo dei tre gruppi. Completando quindi il quadro precedente.




Ora, per completare i nostri ‘residui fiscali’, non resta che distribuire anche le ‘entrate’ sui tre gruppi presi in considerazione.

Le 'entrate' 

Per molte voci di contribuzione, FM ha sicuramente avuto accesso a dati che io invece non posso verificare e discutere, quindi li prendiamo per buoni; così per il gettito irpef e per i contributi sociali; ci permettiamo invece qualche correzione su qualche altro punto, di metodo soprattutto: le imposte per consumi, stimate in 1,5 miliardi ci sembrano troppo basse (considerato il gettito IVA totale di circa 98 miliardi); vedendo come FM ha ottenuto questa cifra, mi pare che utilizzi una aliquota troppo bassa, e la applichi ad un consumo presunto derivante dal reddito irpef calcolato per altri scopi (gettito irpef); ma questa stima, applicata ai redditi generali producono un consumo finale delle famiglie ben inferiore a quanto rilevato dai dati nazionali; correggeremo quindi questa stima secondo questi ultimi dati e secondo una aliquota più alta.
In secondo luogo, le stime FM includono solo le imposte pagate personalmente; ci sembra corretto invece includere tutte le tasse che gli stranieri (e gli italiani) pagano attraverso le loro attività, anche imprenditoriali; quindi aggiungeremo una stima del gettito da reddito d’impresa e Irap. Da ultimo, suddivideremo altre entrate residuali (dirette e indirette).
Per chi volesse maggiori dettagli su queste stime, può leggerli nell’Appendice in fondo al post. 

Ecco quindi le nostre stime per le entrate 2013.


Le entrate totali per il 2013 sono state di circa 770 miliardi, 763 miliardi di entrate correnti e 9,3 di entrate in conto capitale. Solo circa 660 rappresentano tasse e contributi (riferibili ai residenti). Queste possono essere suddivise ulteriormente in circa 241 miliardi di entrate dirette, 203 miliardi di indirette e 215 di contributi sociali.
Le entrate attribuite agli stranieri (secondo le ipotesi sopra esposte) ammontano a circa 28 miliardi. Più alte rispetto alle stime FM.
Siamo ora in grado, finalmente, di costruire i nostri ‘residui fiscali’ per i tre gruppi considerati.



Calcoliamo i residui secondo 4 diverse ipotesi, considerando le nostre stime per le entrate e quelle di FM (in questo caso abbiamo mantenuto le stesse stime per le entrate ‘italiane’ anche se i totali risultano ovviamente inferiori), e considerando la spesa ‘individuale’ e la spesa ‘complessiva’,
Per tutti i casi, il ‘residuo fiscale’ degli anziani risulta negativo, come ovvio.
Per gli stranieri l’ipotesi più favorevole è la prima, costruita con la nostra stima delle entrate (più ‘generosa’) e considerando solo la spesa ‘individuale’; qui abbiamo addirittura un residuo di circa 11 miliardi, 2.300 euro pro capite; ma come si potrà notare, sotto queste ipotesi, anche per gli italiani attivi si presenta un residuo positivo, e ben più consistente.
Per gli altri casi, il ‘residuo’ stranieri si annulla o diventa negativo; mentre quello degli italiani attivi resta positivo.
Ecco esplicitato, con i numeri, quanto anticipato nelle nostre considerazioni.
Il ‘residuo fiscale’ straniero risulta negativo, o comunque ben inferiore a quello degli italiani attivi, e la cosa deve essere vista come del tutto NORMALE e PREVEDIBILE considerando i bassi redditi degli stranieri e la funzione ridistributiva della spesa pubblica.

Potremmo quindi così riassumere quanto analizzato fino ad ora:
1) il contributo di una qualsiasi 'risorsa' alla crescita economica non può essere stimato semplicemente da un saldo 'entrate/uscite' per le casse dello stato
2) in un 'bilancio' di questo tipo bisognerebbe considerare allora anche le rimesse degli stranieri, risorse che ogni anno perdiamo
3) le stime dei 'bilanci' degli stranieri diffusi dalla stampa nazionale, generalmente costruiti da Fondazione Moressa, sono scorretti, per non dire falsi, visto che considerano - per il calcolo a 'costi standard' - SOLO la spesa individuale imputata agli stranieri, ma non la spesa collettiva.
4) molte voci della 'spesa' per gli stranieri sono comunque molto sottovalutate.


I 'bilanci' degli stranieri secondo la 'spesa marginale'

Oltre alla stima di FM a 'costi standard' esiste una stima (meno nota) secondo la  'spesa marginale'
Questi i risultati stimati da FM.


Cosa significa calcolare i bilanci degli stranieri secondo il metodo della ‘spesa marginale’? che, a differenza, del metodo ‘a costi standard’ non viene considerata tutta la spesa consumata dagli stranieri, ma solo quella ‘consumata in più’.
Per la spesa di istruzione, per esempio, sostiene FM, la spesa è rimasta pressoché invariata, perché l’aumento di studenti può sfruttare diverse ‘economie’.
Quindi “è invece più interessante considerare un metodo di prospettiva come quello marginale, che cerca di capire l’incidenza effettiva della nuova utenza straniera che si è sommata al funzionamento di servizi preesistenti” (riportiamo dal rapporto FM).
Questa prima riflessione è già alquanto criticabile: FM fonda questo ragionamento sull’osservazione che alcune voci di spesa non sono nel complesso cresciute. Ma questo fatto non basta per concludere che l’aumento della ‘utenza’ per molte voci di spesa abbia sfruttato ‘economie’ che hanno contenuto gli aumenti; può darsi, più realisticamente, che molte voci siano rimaste costanti - o addirittura diminuite, come vedremo - perché soggette a vincoli di bilancio, a precise scelte politiche che ne hanno contenuto la crescita; quel contenimento, considerando l’aumento degli utenti, non ha fatto altro che ripartire la spesa e le risorse su un numero più ampio, ovvero ABBASSANDO la spesa procapite. E questo non significa che tutti gli utenti hanno consumato meno spesa, può darsi invece che alcune categorie di utenti abbiano consumato meno spesa.

Ma quale spesa FM considera quindi come marginale, confrontiamo con il ‘bilancio’ a costi standard:


Sostanzialmente considerano solo i trasferimenti monetari, che tra sostegno al reddito, politiche abitative e servizi sociali, vengono stimati in 2,6 miliardi.

Cosa sostiene questo ragionamento quindi: che i 5 milioni di stranieri oggi presenti sul nostro territorio consumano soltanto poco meno di 3 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva, ciò significa nemmeno 600 euro a persona (mentre la spesa procapite per i ‘non stranieri’ sarebbe quindi di quasi 15 mila euro). E questo indipendentemente dal numero di stranieri.
Potremmo far entrare quanti stranieri si vuole... e non ci costerebbero quasi un centesimo.
Ovviamente la realtà non può essere questa. Giustizia, Sanità, Servizi sociali, Scuola..costa ovviamente di più quando gli utenti aumentano.
Se può avere qualche senso la logica dei ‘cosi marginali’ non è senz’altro quella adottata da FM.

Ma vediamo un’altra questione. Il metodo considera la ‘spesa marginale’, ma per le entrate? I 16,6 miliardi di entrate stimate col metodo a costi standard diventano qui solo 6,1. Si considera quindi solo il gettito fiscale, mentre si escludono tutti i contributi sociali versati dagli stranieri. Il motivo non è spiegato. Se gli stranieri ‘ci pagano le pensioni’ questo è proprio il contributo più importante da considerare.
Viene il dubbio che quella componente sia stata eliminata solo per non far apparire ‘bilanci’ troppo positivi. Con 16,6 miliardi di entrate globali e solo 2,9 miliardi di uscite per gli stranieri, le casse dello stato avrebbero un attivo di 13,7 miliardi (dal contributo straniero), quasi 2740 euro di ‘residuo fiscale’ pro capite per gli stranieri.

Aldilà delle considerazioni sopra esposte, ritengo che il metodo ‘marginale’ sia criticabile fin nei fondamentali. E tali critiche si legano a quelle generali - già esposte nella prima parte - riguardo a questi tentativi di calcolare il contributo degli stranieri, secondo le entrate-uscite delle casse dello stato.
Quando si possono considerare ‘quantità marginali’? quando una grandezza varia al variare di una unità di un’altra variabile. Quando c’è quindi un ‘di più’ (o di meno).
Se una azienda con 100 dipendenti ne assume un altro, potrà calcolare il costo marginale (aggiuntivo), di questo 101-esimo dipendente, oppure la sua produttività marginale.
Ma se una azienda deve semplicemente assumere un dipendente per sostituirne un altro (andato in pensione, o in maternità, etc..) mantenendo sempre 100 dipendenti, non ha alcun senso calcolare il costo marginale del neo-assunto.
Così, se guadagno 30000 euro, e su questo reddito pago tasse con una certa aliquota media (es. 25%), avrà senso calcolare l’aliquota marginale se il mio reddito aumenta a 35000; come aumenta l’aliquota al variare del mio reddito. Ma non avrà invece alcun senso calcolare l’aliquota marginale se prima guadagnavo 30mila euro facendo l’agente di commercio e adesso guadagno 30mila euro come impiegato perché ho cambiato lavoro.

La logica ‘marginale’ ha quindi senso se quelle quantità sono riferite ad un di più, che riesce a creare l’ingresso nell’economia di stranieri. Ecco perché questo contributo non può che essere valutato considerando l’effetto globale sull’economia, e non solo quello che ha sulle casse dello stato.
Se per l’ingresso di stranieri, si sono formati 1000 occupati in più; quello sarà un contributo positivo, su cui ha senso fare considerazioni ‘marginali’. Se invece quei 1000 occupati hanno semplicemente sostituito lavoro italiano, e l’occupazione è rimasta quella di prima, allora qualsiasi ragionamento ‘marginale’ perde di significato.

Due precisazioni: ovviamente il risultato finale (occupati in meno, più o uguali) non sarà determinato solo da effetti diretti dell’ingresso di stranieri, ma sarà il risultato di molte concause; ma questo a ben vedere poco importa: bisogna valutare come l’intero sistema economico risponda all’ingresso di stranieri.

In secondo luogo, quando si parla di sostituzione, anche in questo caso non si tratta solo di una sostituzione diretta (l’azienda che assume uno straniero per sostituire un italiano - pensionato o licenziato), ma conta anche quella indiretta: il nuovo elemento immesso nel sistema - gli stranieri - cambiano i fattori (soprattutto i costi dei fattori produttivi), determinando anche uno spostamento di risorse (capitale umano e produttivo) verso altri settori, industrie, attività. E questo spostamento può determinare l’aumento di occupazione straniera da una parte, e la diminuzione di occupati italiani dall’altra.
Secondo effetti diretti la badante ucraina non potrà mai “rubare il lavoro” al laureato italiano; secondo gli effetti indiretti, lo spostamento di risorse (allocazione, direbbero gli economisti), potrebbe anche accadere. Anzi, accade.


Il contributo degli stranieri all’economia italiana va quindi valutato nella globalità degli effetti che l’aumento degli stranieri sul nostro territorio può aver prodotto. 
E’ una analisi complessa che non faremo ora, ma tenteremo magari in futuro; ci limitiamo a qualche osservazione generale.
L’ingresso di stranieri in Italia è aumentato considerevolmente dai primi anni ‘2000 (almeno, quello dei regolari o delle regolarizzazioni degli stranieri già presenti); fino al 2008, la crescita degli occupati ha riguardato sia gli italiani che gli stranieri (anche se quella straniera è stata sicuramente più accentuata; anche se quella italiana ha riguardato soprattutto quella femminile e dei lavoratori ‘anziani’ - rimasti al lavoro per l’innalzamento dell’età pensionabile; in misura minore quella degli uomini italiani).
Dall’inizio della crisi invece l’occupazione straniera ha continuato a crescere; mentre quella italiana è crollata. 
Almeno in questa seconda fase avrebbe senso studiare quella sostituzione indiretta di cui si parlava prima. E alla luce di questa analisi, trarre qualche ipotesi sul perché la maggiore occupazione italiana della prima fase non si è conservata, a differenza di quella straniera; in parole povere, perché l’aumento dell’occupazione italiana non si è dimostrata sostenibile.

Un’ultimissima considerazione.
Dovendo valutare il contributo globale degli stranieri all’economia andrebbero inclusi nei conti i numeri della criminalità. Forse l’unico settore in cui ha senso fare ragionamenti ‘marginali’. Nel mercato criminale infatti, l’ingresso di un nuovo delinquente non porta alla fuoriuscita di un altro dal mercato, per una sorta di concorrenza (come invece accade nel mercato del lavoro, o per le aziende). I nuovi crimini si aggiungono a vecchi crimini, i nuovi criminali ai vecchi criminali. Vi è sempre un di più, quando entra un nuovo delinquente.
La crescita della criminalità quindi non può certo essere esclusa da queste stime. E non può nemmeno essere ridotta ai costi (monetari) diretti che questa comporta.




APPENDICE

Forniamo qui qualche ulteriore dettaglio sulla stima delle entrate.
La suddivisione delle entrate 2013 proviene da Istat.

Irpef: Il gettito Irpef per gli stranieri è quello stimato da Fondazione Moressa, l’Irpef per gli anziani/pensionati è presa dai dati del Ministero delle Finanze sulle dichiarazioni 2013 (contribuenti pensionati), quello dei lavoratori italiani è ottenuto per differenza.

Contributi sociali: I contributi degli stranieri sono quelli stimati da FM, i pensionati non versano contributi, quelli dei lavoratori italiani è calcolata per differenza.

Ires: il gettito Ires per il 2013 ammontava a 41,59 miliardi; per suddividerlo tra imprenditori italiani e stranieri si è considerato il diverso peso delle imprese straniere sul totale al 2013 (circa 500mila su 4 milioni e 300 mila, ovvero l’ 11,6%), ma si è imputato alle imprese straniere anche redditi d’impresa più bassi, utilizzando la stessa proporzione calcolata da FM per i redditi personali (13 mila euro per gli stranieri, contro 21 mila euro degli italiani; ovvero circa il 60%). Utilizzando queste proporzioni si è stimato che il reddito d’impresa per gli stranieri - e quindi il gettito - costituisca circa il 7% del totale.
Da qui la due cifre di 2,9 e 38,7 miliardi.

Irap e altre dirette: il gettito totale Irap di 32 miliardi, e delle altre dirette di 33 miliardi, sono stati suddivisi tramite le stesse proporzioni stimate per il reddito d’impresa (si è considerato che gran parte delle altre entrate dirette derivino comunque da redditi da impresa o da capitale).
Iva: il gettito Iva 2013 (per scambi interni) è stato di circa 98 miliardi; per ricavare il gettito Iva si è partiti dai redditi individuali (irpef) stimati da FM  (13 mila per stranieri, 21 mila per gli italiani) e da quelli dei pensionati di fonte Mef (20 mila).
Utilizzando i pesi relativi dei diversi gruppi sul totale contribuenti (circa 2,4 stranieri, circa 15 milioni pensionati, 23,7 milioni di italiani attivi) si sono ottenuti i redditi totali (irpef) dei tre gruppi, e i relativi pesi sui redditi totali (4,3 - 40 - 55,7%). 
Il gettito totale (98 mld) è stato suddiviso secondo queste proporzioni.

Altre indirette: Il gettito di circa 73 miliardi di questa componente è stato suddiviso secondo la stessa proporzione calcolata per il gettito Iva. 
I risultati sono così riassunti