sabato 29 ottobre 2016

Sul contributo straniero alla crescita


Visto che negli ultimi giorni si è parlato molto di stranieri, vorrei interrompere le analisi sulla spesa pubblica italiana (la prossima tratterà la spesa per il personale) per anticipare una discussione su questo tema, in particolare sul contributo straniero alla crescita italiana.
E' sempre più frequente infatti leggere sulla stampa nazionale qualche articolo sulla “ricchezza prodotta dagli stranieri”, con tanto di dati precisi sul 'contributo netto' dato alle casse dello stato da parte degli stranieri.
La maggior parte di questi articoli utilizza le stime effettuate da Fondazione Moressa (FM, d'ora in poi), istituto nato qualche anno fa proprio per studiare l’ ‘economia dell’immigrazione’.
Qui possiamo vedere credo l’ultima stima completa disponibile di FM, sulla 'ricchezza prodotta dagli stranieri', riferita al 2013.


Come si può vedere, secondo queste stime, gli stranieri contribuiscono (tra tasse e contributi previdenziali) per 16,6 miliardi, e ‘consumano’ spesa pubblica per 13,5 miliardi, per un ‘saldo netto’ di 3,1 miliardi di euro.
Il ‘bilancio’ di FM viene spesso presentato come ‘contributo netto’ degli stranieri all’economia italiana; in realtà - anche prendendolo per buono - rappresenterebbe soltanto il contributo alle casse dello stato.
Riguardo l’economia in generale bisognerebbe anche considerare il valore delle rimesse degli stranieri verso i paesi d'origine, perché sono ‘risorse’ che ogni anno perdiamo.
Nel 2013 ammontavano a 5,5 miliardi, ‘mangiandosi’ quindi tutto il presunto ‘attivo’ del contributo alle casse dello stato.

Tempo fa, al fine di comprendere meglio questi numeri, ho richiesto e ricevuto da Fondazione Moressa un rapporto che spiega in maniera più dettagliata il metodo da loro utilizzato per ottenere queste cifre (la tabella qui sopra è tratta da questo rapporto).
Analizzate le loro stime, ho inviato a FM qualche mia considerazione;  purtroppo, ad oggi, non ho ancora ricevuto una risposta.

Vorrei qui analizzare le stime di FM, discutendone prima di tutto il metodo utilizzato.


Considerazioni generali sulla creazione della ricchezza

Parto da questa considerazione: trovo del tutto privo di senso voler ricavare il “contributo degli stranieri all’economia (o alla crescita dell’economia) italiana” (o anche solo il contributo ai bilanci pubblici) con calcoli di questo tipo, relativi al saldo tra ‘entrate’ e ‘uscite’, ovvero ricavando un “residuo fiscale” degli stranieri. 
Questi numeri potranno avere un senso ‘contabile’, non ne hanno, a parere mio, da un punto di vista ‘economico’. Spiego meglio perché.
Si dice spesso che gli stranieri sono ‘risorse’, ed è senz’altro vero; come lo è qualsiasi persona. Ogni persona è una ‘risorsa umana’, come dicono gli economisti. Ma la ricchezza che tale ‘risorsa’ potrà creare, al pari di qualsiasi altra risorsa (materiale, finanziaria, etc..) dipende molto da COME verrà impiegata.
L’economia non cerca solo di impiegare “risorse”, cerca di impiegarle nel miglior modo possibile, nel modo più “economico” possibile, ovvero nella maniera che produca “le maggiori utilità, col minimo sforzo”.
Questo aumento di produttività è tutto ciò che spiega - e può produrre - la crescita economica di un paese o di una economia, e quindi il maggior benessere per un certo numero di individui.
Ciò vale anche per l’impiego degli stranieri nell'economia italiana. Il fatto che siano ‘occupati’, che producano ‘valore aggiunto’ e ‘reddito’ non basta per concludere l’analisi del contributo dato alla crescita dell’economia.
Bisognerebbe essere in grado di capire se l’impiego di queste risorse ha contribuito ad aumentare la produttività, la ricchezza, il benessere generale.
Bisognerebbe capire se l’impiego di queste risorse non ha invece semplicemente sostituito l’impiego di altre risorse, e quali effetti ha determinato questa ‘sostituzione’.

Facciamo un esempio molto concreto: una donna, italiana, una madre di famiglia, non lavora; avrebbe anche l’occasione di avere una occupazione, full-time o part-time, ma per farlo dovrebbe trovare qualcun altro che accudisca i figli, e faccia altre faccende domestiche al suo posto; ammettiamo che possa prendere una ‘domestica’ italiana, ma le costerebbe troppo; non avrebbe convenienza a lavorare perché i suoi guadagni sarebbero inferiori a quanto dovrebbe pagare questa domestica. Ad un certo punto, trova invece una ‘domestica’ straniera, che chiede meno, che è più economica. E così diventa per lei conveniente lavorare: così vi sono due occupate in più, entrambe più soddisfatte, e anche chi ha potuto impiegare la donna italiana è senz’altro più soddisfatto. Il reddito della ‘domestica’ deriverà da quello della donna italiana, che ne ha comunque un guadagno, e il suo reddito deriva dai ricavi della impresa che ha deciso di impiegarla. Oltre alla maggiore occupazione si sarà quindi prodotta una migliore ‘allocazione delle risorse’.
Ma non sempre accade questo.
Ecco, bisogna capire se l’impiego di ‘risorse straniere’ segua sempre casi come questo, oppure no.
Tale analisi però è molto complessa, deve analizzare la crescita globale di diverse variabili economiche, e, essendo il risultato di diversi fattori, sarebbe comunque molto difficile ottenere un risultato univoco e definitivo sulla ‘ricchezza prodotta dagli stranieri’.
Qui, in questo post, non tenteremo nulla di questo tipo, mi limiterò invece a discutere quanto siano credibili e corrette le stime di FM.

Torniamo quindi ai ‘bilanci’ di Fondazione Moressa.
Leggendo i vari rapporti prodotti da FM è ben chiara l’intenzione che li anima: combattere il “razzismo” contro gli stranieri, dimostrando che il loro contributo all’economia italiana è considerevole.
Intenzione lodevole, ma a parer mio errata e pericolosa.
Perché i risultati ottenuti e diffusi da FM producono un “razzismo” al contrario, a favore degli stranieri ma contro gli italiani.
Su cosa si basa infatti il razzismo? Sull’idea che un certo gruppo sociale sia migliore, ‘speciale’, rispetto ad altri. E proprio questo sembra essere il risultato della ‘propaganda’ creata da FM: gli stranieri contribuiscono più di quanto costano! Cosa che agli italiani, evidentemente, non riesce; altrimenti avremmo dei bilanci pubblici in continuo avanzo.
Le buone intenzioni di FM, sono quindi pessime nei risultati; soprattutto perché per raggiungere questi risultati è costretta a creare dei ‘bilanci falsi’.
E’ così. E non può essere che così.
Domandiamoci infatti: se dovessimo scoprire che i ‘residui fiscali’ degli stranieri sono negativi, ovvero che gli stranieri ‘consumano’ più spesa pubblica delle entrate che versano, dovremmo sorprenderci? A mio parere, no. Affatto. Sarebbe anzi un risultato del tutto scontato.
Qual è la funzione della spesa pubblica? Ridistribuire risorse economiche. Si può essere contrari, criticarne efficienza, valutare sprechi e difetti, ma questa è.
La principale funzione di ridistribuzione che lo stato opera avviene attraverso la previdenza:
i lavoratori contribuiscono mentre sono attivi, e ‘consumano’ spesa previdenziale quando sono pensionati. Da questo punto di vista è quindi del tutto ovvio che i ‘residui fiscali’ dei lavoratori siano positivi, mentre quelli dei pensionati siano negativi.
Ed è del tutto ovvio che gli stranieri che sono mediamente più giovani degli italiani e sono in Italia da pochi anni, ‘consumino’ meno spesa pensionistica.
Ma la funzione ridistributiva dello stato non si esaurisce nella previdenza; lo stato ridistribuisce attraverso la sanità, l’educazione, la spesa sociale non previdenziale, etc; in genere, attraverso qualsiasi funzione di spesa. E ridistribuisce, in genere, da chi ha redditi elevati a chi ha redditi più bassi (non parleremo ora di certe “anomalie” della spesa pubblica italiana che hanno invertito questo processo, ma la direzione ‘normale’ della ridistribuzione è in genere quella).
Ora, gli stranieri, oltre ad essere più giovani,  hanno anche redditi più bassi degli italiani. Quindi dovrebbero ‘consumare’ spesa pubblica in misura maggiore alle entrate versate.
Ed è così infatti. Lo dimostreremo costruendo delle stime alternative a quelle di FM.

Le stime di FM si basano su due diversi metodi: un primo metodo, valuta il consumo di spesa pubblica “a costi standard” (sono i risultati più diffusi dalla stampa, quelli relativi alla tabella iniziale); un secondo metodo analizza solo la “spesa marginale” degli stranieri.
Partiamo dal primo metodo


I 'bilanci' degli stranieri 'a costi standard'



Riportiamo nuovamente la tabella pubblicata all’inizio, per maggiore comodità.
Le entrate totali sono stimate in 16,6 miliardi. Le uscite sono invece di 13,5 miliardi.

Mettiamo per ora da parte le stime per le entrate e concentriamoci sulla spesa, che trovo criticabile fin nel criteri utilizzati.

La spesa pubblica degli stranieri

Le stime di FM prevedono un ‘consumo’ di sanità di 3,9 miliardi, di 3,6 per la scuola, 600 milioni per i servizi sociali, 400 milioni per la casa, 1,9 miliardi per la giustizia (tribunali e carceri), 1 miliardo di spesa del Ministero dell’Interno (principalmente per la spesa relativa alla gestione ‘migranti’), e infine 2,1 miliardi di trasferimenti economici diretti (che comprendono pensioni, assegni ai nuclei famigliari, sostegno al redditi, etc..).

Tempo fa ho scoperto un’altra stima relativa alla 'spesa pubblica' per gli stranieri, proveniente dal Centro Studi Impresa Lavoro. 
Riporto qui sotto i suoi risultati.


Sostanzialmente, i numeri su entrate e uscite del CSIL non si discostano molto da quelle di FM, ma considerano anche un ‘debito implicito previdenziale’, ovvero il costo delle future spese previdenziali per gli stranieri ‘attualizzate’ ad oggi.
In questo modo, il saldo risulta negativo per 5 miliardi.

Tornando alla spesa stimata da FM, notiamo poi che questa riguarda soltanto la spesa che gli stranieri ‘consumano’ direttamente, ovvero quella parte di spesa considerata ‘individuale’.
Ma è corretto considerare soltanto quella spesa?
Diamo un’occhiata a come era composta la spesa pubblica nel 2013 (anno considerato da FM).
La spesa totale della PA per il 2013 è stata di quasi 820 miliardi.
Qui il dettaglio per tipo di aggregato.




E qui il dettaglio della spesa per funzione (dove si è specificata meglio la spesa sociale).



Le funzioni di spesa ‘in blu’ sono quelle la cui spesa ha carattere ‘collettivo’, quelle ‘in verde’ hanno carattere ‘individuale’. La spesa per Istruzione, ad esempio, viene erogata a singoli utenti; la spesa per la Difesa è fatta per fornire ‘utilità’ alla collettività in generale.

Ebbene, i conti di FM, come detto, imputano agli stranieri soltanto la ‘spesa individuale’ da questi consumata. E il resto della spesa, quella collettiva?
Visto che fornisce ‘utilità’ all'intera collettività, dovrebbe essere ripartita proporzionalmente su di essa. Non avrebbe senso infatti costruire dei ‘bilanci sbilanciati’ in cui il totale della spesa non equilibra il totale delle entrate.
In alternativa, se si volesse considerare solo la spesa individuale consumata, tale metodo non dovrebbe essere adottato solo per gli stranieri; sarebbe quindi utili effettuare un confronto con i ‘residui fiscali’ degli italiani. Ed è proprio quello che tenteremo.
Ci è sembrato quindi corretto costruire le nostre stime considerando tre gruppi: gli anziani/pensionati (principali consumatori di spesa pensionistica), gli stranieri e i lavoratori italiani (in modo che quest’ultimo gruppo abbia caratteristiche demografiche simili a quello degli stranieri).
Per questi tre gruppi costruiremo i ‘residui fiscali’, considerando prima solo la spesa individuale (ovvero delle funzioni ‘in verde’), e poi l’intera spesa pubblica.

Vediamo innanzitutto le caratteristiche di questi 3 gruppi.
I pensionati italiani al 2013 erano circa 16 milioni. Gli stranieri residenti in Italia a fine 2013 quasi 5 milioni (4,922 milioni). La popolazione residente quasi 60,8 milioni (60,783).
Il gruppo ‘residuale’ di lavoratori italiani è di quasi 40 milioni di individui (39,860 milioni).

Qui una rappresentazione della distribuzione per età di stranieri e italiani, che mette appunto in evidenza l’età media più giovane degli stranieri.


Come si nota, la percentuale di stranieri tra la popolazione anziana è trascurabile.

Verifichiamo ora le singole voci di spesa della stima di FM.

La spesa sanitaria

FM stima per gli stranieri un consumo di spesa sanitaria di 3,9 miliardi per il 2013.
Io penso che questa stima sia troppo bassa.
Il consumo di sanità varia generalmente secondo il sesso e secondo l’età.
Un esempio dei profili del consumo sanitario in base all’età si può ritrovare nelle analisi annuali del Mef sulla spesa previdenziale e sanitaria “tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”. 
Eccone un esempio.


La spesa totale 2013 per la Sanità è stata di circa 115 miliardi (come da tabella sopra).
La popolazione alla fine dello stesso anno era di circa 60,8 milioni.
Ne risulta una spesa pro capite media di quasi 1900 euro.
Utilizzeremo questa spesa pro capite media per il 2013.
Per i profili di consumo sanitario per età, utilizzeremo i dati di uno studio relativo ai consumi in regione Lombardia (ipotizzando che si mantengano gli stessi profili  - % rispetto alla media - su tutto il territorio nazionale).
Attraverso i dati sulla popolazione per stranieri e italiani (DemoIstat) possiamo calcolare la spesa sanitaria per classe di età, e quindi la spesa totale per ogni gruppo.
Per il gruppo dei pensionati considereremo la classe degli over 65 (16,3 milioni, circa uguale ai pensionati totali).



Notiamo subito che la spesa sanitaria ‘consumata’ dagli stranieri con questo metodo risulterebbe di circa 5,6 miliardi, superiore alle stime di FM.


Il gruppo degli italiani più giovani (under 65) ‘consuma’ quasi 53 miliardi di spesa sanitaria, il gruppo più anziano poco più di 56 miliardi.
E’ utile confrontare questi numeri con la quota relativa sulla popolazione totale.



Gli anziani, che sono il 26,3% dei residenti totali consumano quasi il 50% della spesa sanitaria totale; gli stranieri, che rappresentano l’8,1% consumano il  4,9% di spesa (per via della minore anzianità); il resto della popolazione italiana (65,6%) il 46,1% della spesa.

La spesa per istruzione

Secondo FM la spesa d’istruzione ‘consumata’ dagli stranieri è stata nel 2013 di 3,6 miliardi.
Per verificare questa stima ricaveremo le spese pro capite da dati di fonte Oecd, per le diverse componenti di questa spesa (ovvero, i vari livelli di istruzione), applicandoli ai dati Istat sugli studenti italiani e stranieri dei vari livelli. 
La spesa per istruzione nel 2013 è stata di quasi 66 miliardi, 6.818 euro per studente; nel dettaglio: 6.387 euro per studenti della primaria o scuola dell’infanzia, 7.104 per la scuola secondaria, 3.594 per il livello universitario (terziario), 581 euro per altre spese connesse all’istruzione.




Usando questi dati troviamo un ‘consumo’ in Istruzione di 5,64 miliardi per gli stranieri e di 60,27 miliardi per gli italiani. Si noti che in percentuale la spesa degli stranieri è leggermente superiore alla sua percentuale rispetto alla popolazione, visto la maggior concentrazione degli stranieri tra le fasce di età più giovani.

Altre spese individuali

Restano da ripartire le altre funzioni di spesa individuali: “attività ricreative, culturali e di culto” e le spese sociali. Ad esclusione delle spese prettamente pensionistiche (pensioni di vecchiaia, superstiti e invalidità) che saranno attribuite alla categoria dei pensionati (trascurando la spesa che FM considera per gli stranieri), ci limitiamo a suddividere queste spese ‘residuali’ in maniera proporzionale al peso dei tre gruppi sul totale della popolazione. 
Come visto gli stranieri rappresentano l’ 8,1% dei residenti, gli anziani il 26,3% e gli italiani attivi il 65,6%. Considerando soltanto stranieri e italiani attivi le rispettiva percentuali sarebbero 11% e 89%.
Faremo forse una suddivisione più accurata, indagando altre fonti, in futuro.
Facciamo notare che questa suddivisione ‘proporzionale’ per il consumo individuale di ‘spesa sociale’ da parte degli stranieri, rappresenta una ipotesi ‘minima’: avendo generalmente redditi più bassi, e un maggior rischio di trovarsi in uno stato di povertà (relativa o assoluta), il consumo di ‘spesa sociale’ degli stranieri dovrebbe essere in percentuale maggiore rispetto a quello del resto della popolazione italiana, e quindi questa spesa dovrebbe essere più alta.
La suddivisione della spesa ‘individuale’ può essere così riassunta.



Come si vede, anche con questo metodo la spesa attribuita agli stranieri non è molto differente da quella stimata da FM, 16,6 miliardi contro 13,5. E la differenza di 3,1 miliardi deriva dalla maggior spesa stimata per sanità e istruzione, a dimostrazione che il metodo usato per la spesa individuale ‘residuale’ non porta a risultati molto differenti da quelli di FM.
A questo punto però, restano ancora da suddividere quasi 300 miliardi di spesa ‘collettiva’ (288). Se lasciati fuori dai conteggi porterebbe inevitabilmente ad un ‘buco’ nel saldo complessivo entrate/uscite.

Visto che questa spesa dovrebbe fornire ‘utilità’ in maniera indifferenziata per la collettività, proviamo a suddividere questa spesa ‘collettiva’ secondo il peso relativo dei tre gruppi. Completando quindi il quadro precedente.




Ora, per completare i nostri ‘residui fiscali’, non resta che distribuire anche le ‘entrate’ sui tre gruppi presi in considerazione.

Le 'entrate' 

Per molte voci di contribuzione, FM ha sicuramente avuto accesso a dati che io invece non posso verificare e discutere, quindi li prendiamo per buoni; così per il gettito irpef e per i contributi sociali; ci permettiamo invece qualche correzione su qualche altro punto, di metodo soprattutto: le imposte per consumi, stimate in 1,5 miliardi ci sembrano troppo basse (considerato il gettito IVA totale di circa 98 miliardi); vedendo come FM ha ottenuto questa cifra, mi pare che utilizzi una aliquota troppo bassa, e la applichi ad un consumo presunto derivante dal reddito irpef calcolato per altri scopi (gettito irpef); ma questa stima, applicata ai redditi generali producono un consumo finale delle famiglie ben inferiore a quanto rilevato dai dati nazionali; correggeremo quindi questa stima secondo questi ultimi dati e secondo una aliquota più alta.
In secondo luogo, le stime FM includono solo le imposte pagate personalmente; ci sembra corretto invece includere tutte le tasse che gli stranieri (e gli italiani) pagano attraverso le loro attività, anche imprenditoriali; quindi aggiungeremo una stima del gettito da reddito d’impresa e Irap. Da ultimo, suddivideremo altre entrate residuali (dirette e indirette).
Per chi volesse maggiori dettagli su queste stime, può leggerli nell’Appendice in fondo al post. 

Ecco quindi le nostre stime per le entrate 2013.


Le entrate totali per il 2013 sono state di circa 770 miliardi, 763 miliardi di entrate correnti e 9,3 di entrate in conto capitale. Solo circa 660 rappresentano tasse e contributi (riferibili ai residenti). Queste possono essere suddivise ulteriormente in circa 241 miliardi di entrate dirette, 203 miliardi di indirette e 215 di contributi sociali.
Le entrate attribuite agli stranieri (secondo le ipotesi sopra esposte) ammontano a circa 28 miliardi. Più alte rispetto alle stime FM.
Siamo ora in grado, finalmente, di costruire i nostri ‘residui fiscali’ per i tre gruppi considerati.



Calcoliamo i residui secondo 4 diverse ipotesi, considerando le nostre stime per le entrate e quelle di FM (in questo caso abbiamo mantenuto le stesse stime per le entrate ‘italiane’ anche se i totali risultano ovviamente inferiori), e considerando la spesa ‘individuale’ e la spesa ‘complessiva’,
Per tutti i casi, il ‘residuo fiscale’ degli anziani risulta negativo, come ovvio.
Per gli stranieri l’ipotesi più favorevole è la prima, costruita con la nostra stima delle entrate (più ‘generosa’) e considerando solo la spesa ‘individuale’; qui abbiamo addirittura un residuo di circa 11 miliardi, 2.300 euro pro capite; ma come si potrà notare, sotto queste ipotesi, anche per gli italiani attivi si presenta un residuo positivo, e ben più consistente.
Per gli altri casi, il ‘residuo’ stranieri si annulla o diventa negativo; mentre quello degli italiani attivi resta positivo.
Ecco esplicitato, con i numeri, quanto anticipato nelle nostre considerazioni.
Il ‘residuo fiscale’ straniero risulta negativo, o comunque ben inferiore a quello degli italiani attivi, e la cosa deve essere vista come del tutto NORMALE e PREVEDIBILE considerando i bassi redditi degli stranieri e la funzione ridistributiva della spesa pubblica.

Potremmo quindi così riassumere quanto analizzato fino ad ora:
1) il contributo di una qualsiasi 'risorsa' alla crescita economica non può essere stimato semplicemente da un saldo 'entrate/uscite' per le casse dello stato
2) in un 'bilancio' di questo tipo bisognerebbe considerare allora anche le rimesse degli stranieri, risorse che ogni anno perdiamo
3) le stime dei 'bilanci' degli stranieri diffusi dalla stampa nazionale, generalmente costruiti da Fondazione Moressa, sono scorretti, per non dire falsi, visto che considerano - per il calcolo a 'costi standard' - SOLO la spesa individuale imputata agli stranieri, ma non la spesa collettiva.
4) molte voci della 'spesa' per gli stranieri sono comunque molto sottovalutate.


I 'bilanci' degli stranieri secondo la 'spesa marginale'

Oltre alla stima di FM a 'costi standard' esiste una stima (meno nota) secondo la  'spesa marginale'
Questi i risultati stimati da FM.


Cosa significa calcolare i bilanci degli stranieri secondo il metodo della ‘spesa marginale’? che, a differenza, del metodo ‘a costi standard’ non viene considerata tutta la spesa consumata dagli stranieri, ma solo quella ‘consumata in più’.
Per la spesa di istruzione, per esempio, sostiene FM, la spesa è rimasta pressoché invariata, perché l’aumento di studenti può sfruttare diverse ‘economie’.
Quindi “è invece più interessante considerare un metodo di prospettiva come quello marginale, che cerca di capire l’incidenza effettiva della nuova utenza straniera che si è sommata al funzionamento di servizi preesistenti” (riportiamo dal rapporto FM).
Questa prima riflessione è già alquanto criticabile: FM fonda questo ragionamento sull’osservazione che alcune voci di spesa non sono nel complesso cresciute. Ma questo fatto non basta per concludere che l’aumento della ‘utenza’ per molte voci di spesa abbia sfruttato ‘economie’ che hanno contenuto gli aumenti; può darsi, più realisticamente, che molte voci siano rimaste costanti - o addirittura diminuite, come vedremo - perché soggette a vincoli di bilancio, a precise scelte politiche che ne hanno contenuto la crescita; quel contenimento, considerando l’aumento degli utenti, non ha fatto altro che ripartire la spesa e le risorse su un numero più ampio, ovvero ABBASSANDO la spesa procapite. E questo non significa che tutti gli utenti hanno consumato meno spesa, può darsi invece che alcune categorie di utenti abbiano consumato meno spesa.

Ma quale spesa FM considera quindi come marginale, confrontiamo con il ‘bilancio’ a costi standard:


Sostanzialmente considerano solo i trasferimenti monetari, che tra sostegno al reddito, politiche abitative e servizi sociali, vengono stimati in 2,6 miliardi.

Cosa sostiene questo ragionamento quindi: che i 5 milioni di stranieri oggi presenti sul nostro territorio consumano soltanto poco meno di 3 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva, ciò significa nemmeno 600 euro a persona (mentre la spesa procapite per i ‘non stranieri’ sarebbe quindi di quasi 15 mila euro). E questo indipendentemente dal numero di stranieri.
Potremmo far entrare quanti stranieri si vuole... e non ci costerebbero quasi un centesimo.
Ovviamente la realtà non può essere questa. Giustizia, Sanità, Servizi sociali, Scuola..costa ovviamente di più quando gli utenti aumentano.
Se può avere qualche senso la logica dei ‘cosi marginali’ non è senz’altro quella adottata da FM.

Ma vediamo un’altra questione. Il metodo considera la ‘spesa marginale’, ma per le entrate? I 16,6 miliardi di entrate stimate col metodo a costi standard diventano qui solo 6,1. Si considera quindi solo il gettito fiscale, mentre si escludono tutti i contributi sociali versati dagli stranieri. Il motivo non è spiegato. Se gli stranieri ‘ci pagano le pensioni’ questo è proprio il contributo più importante da considerare.
Viene il dubbio che quella componente sia stata eliminata solo per non far apparire ‘bilanci’ troppo positivi. Con 16,6 miliardi di entrate globali e solo 2,9 miliardi di uscite per gli stranieri, le casse dello stato avrebbero un attivo di 13,7 miliardi (dal contributo straniero), quasi 2740 euro di ‘residuo fiscale’ pro capite per gli stranieri.

Aldilà delle considerazioni sopra esposte, ritengo che il metodo ‘marginale’ sia criticabile fin nei fondamentali. E tali critiche si legano a quelle generali - già esposte nella prima parte - riguardo a questi tentativi di calcolare il contributo degli stranieri, secondo le entrate-uscite delle casse dello stato.
Quando si possono considerare ‘quantità marginali’? quando una grandezza varia al variare di una unità di un’altra variabile. Quando c’è quindi un ‘di più’ (o di meno).
Se una azienda con 100 dipendenti ne assume un altro, potrà calcolare il costo marginale (aggiuntivo), di questo 101-esimo dipendente, oppure la sua produttività marginale.
Ma se una azienda deve semplicemente assumere un dipendente per sostituirne un altro (andato in pensione, o in maternità, etc..) mantenendo sempre 100 dipendenti, non ha alcun senso calcolare il costo marginale del neo-assunto.
Così, se guadagno 30000 euro, e su questo reddito pago tasse con una certa aliquota media (es. 25%), avrà senso calcolare l’aliquota marginale se il mio reddito aumenta a 35000; come aumenta l’aliquota al variare del mio reddito. Ma non avrà invece alcun senso calcolare l’aliquota marginale se prima guadagnavo 30mila euro facendo l’agente di commercio e adesso guadagno 30mila euro come impiegato perché ho cambiato lavoro.

La logica ‘marginale’ ha quindi senso se quelle quantità sono riferite ad un di più, che riesce a creare l’ingresso nell’economia di stranieri. Ecco perché questo contributo non può che essere valutato considerando l’effetto globale sull’economia, e non solo quello che ha sulle casse dello stato.
Se per l’ingresso di stranieri, si sono formati 1000 occupati in più; quello sarà un contributo positivo, su cui ha senso fare considerazioni ‘marginali’. Se invece quei 1000 occupati hanno semplicemente sostituito lavoro italiano, e l’occupazione è rimasta quella di prima, allora qualsiasi ragionamento ‘marginale’ perde di significato.

Due precisazioni: ovviamente il risultato finale (occupati in meno, più o uguali) non sarà determinato solo da effetti diretti dell’ingresso di stranieri, ma sarà il risultato di molte concause; ma questo a ben vedere poco importa: bisogna valutare come l’intero sistema economico risponda all’ingresso di stranieri.

In secondo luogo, quando si parla di sostituzione, anche in questo caso non si tratta solo di una sostituzione diretta (l’azienda che assume uno straniero per sostituire un italiano - pensionato o licenziato), ma conta anche quella indiretta: il nuovo elemento immesso nel sistema - gli stranieri - cambiano i fattori (soprattutto i costi dei fattori produttivi), determinando anche uno spostamento di risorse (capitale umano e produttivo) verso altri settori, industrie, attività. E questo spostamento può determinare l’aumento di occupazione straniera da una parte, e la diminuzione di occupati italiani dall’altra.
Secondo effetti diretti la badante ucraina non potrà mai “rubare il lavoro” al laureato italiano; secondo gli effetti indiretti, lo spostamento di risorse (allocazione, direbbero gli economisti), potrebbe anche accadere. Anzi, accade.


Il contributo degli stranieri all’economia italiana va quindi valutato nella globalità degli effetti che l’aumento degli stranieri sul nostro territorio può aver prodotto. 
E’ una analisi complessa che non faremo ora, ma tenteremo magari in futuro; ci limitiamo a qualche osservazione generale.
L’ingresso di stranieri in Italia è aumentato considerevolmente dai primi anni ‘2000 (almeno, quello dei regolari o delle regolarizzazioni degli stranieri già presenti); fino al 2008, la crescita degli occupati ha riguardato sia gli italiani che gli stranieri (anche se quella straniera è stata sicuramente più accentuata; anche se quella italiana ha riguardato soprattutto quella femminile e dei lavoratori ‘anziani’ - rimasti al lavoro per l’innalzamento dell’età pensionabile; in misura minore quella degli uomini italiani).
Dall’inizio della crisi invece l’occupazione straniera ha continuato a crescere; mentre quella italiana è crollata. 
Almeno in questa seconda fase avrebbe senso studiare quella sostituzione indiretta di cui si parlava prima. E alla luce di questa analisi, trarre qualche ipotesi sul perché la maggiore occupazione italiana della prima fase non si è conservata, a differenza di quella straniera; in parole povere, perché l’aumento dell’occupazione italiana non si è dimostrata sostenibile.

Un’ultimissima considerazione.
Dovendo valutare il contributo globale degli stranieri all’economia andrebbero inclusi nei conti i numeri della criminalità. Forse l’unico settore in cui ha senso fare ragionamenti ‘marginali’. Nel mercato criminale infatti, l’ingresso di un nuovo delinquente non porta alla fuoriuscita di un altro dal mercato, per una sorta di concorrenza (come invece accade nel mercato del lavoro, o per le aziende). I nuovi crimini si aggiungono a vecchi crimini, i nuovi criminali ai vecchi criminali. Vi è sempre un di più, quando entra un nuovo delinquente.
La crescita della criminalità quindi non può certo essere esclusa da queste stime. E non può nemmeno essere ridotta ai costi (monetari) diretti che questa comporta.




APPENDICE

Forniamo qui qualche ulteriore dettaglio sulla stima delle entrate.
La suddivisione delle entrate 2013 proviene da Istat.

Irpef: Il gettito Irpef per gli stranieri è quello stimato da Fondazione Moressa, l’Irpef per gli anziani/pensionati è presa dai dati del Ministero delle Finanze sulle dichiarazioni 2013 (contribuenti pensionati), quello dei lavoratori italiani è ottenuto per differenza.

Contributi sociali: I contributi degli stranieri sono quelli stimati da FM, i pensionati non versano contributi, quelli dei lavoratori italiani è calcolata per differenza.

Ires: il gettito Ires per il 2013 ammontava a 41,59 miliardi; per suddividerlo tra imprenditori italiani e stranieri si è considerato il diverso peso delle imprese straniere sul totale al 2013 (circa 500mila su 4 milioni e 300 mila, ovvero l’ 11,6%), ma si è imputato alle imprese straniere anche redditi d’impresa più bassi, utilizzando la stessa proporzione calcolata da FM per i redditi personali (13 mila euro per gli stranieri, contro 21 mila euro degli italiani; ovvero circa il 60%). Utilizzando queste proporzioni si è stimato che il reddito d’impresa per gli stranieri - e quindi il gettito - costituisca circa il 7% del totale.
Da qui la due cifre di 2,9 e 38,7 miliardi.

Irap e altre dirette: il gettito totale Irap di 32 miliardi, e delle altre dirette di 33 miliardi, sono stati suddivisi tramite le stesse proporzioni stimate per il reddito d’impresa (si è considerato che gran parte delle altre entrate dirette derivino comunque da redditi da impresa o da capitale).
Iva: il gettito Iva 2013 (per scambi interni) è stato di circa 98 miliardi; per ricavare il gettito Iva si è partiti dai redditi individuali (irpef) stimati da FM  (13 mila per stranieri, 21 mila per gli italiani) e da quelli dei pensionati di fonte Mef (20 mila).
Utilizzando i pesi relativi dei diversi gruppi sul totale contribuenti (circa 2,4 stranieri, circa 15 milioni pensionati, 23,7 milioni di italiani attivi) si sono ottenuti i redditi totali (irpef) dei tre gruppi, e i relativi pesi sui redditi totali (4,3 - 40 - 55,7%). 
Il gettito totale (98 mld) è stato suddiviso secondo queste proporzioni.

Altre indirette: Il gettito di circa 73 miliardi di questa componente è stato suddiviso secondo la stessa proporzione calcolata per il gettito Iva. 
I risultati sono così riassunti


venerdì 28 ottobre 2016

Equità e sostenibilità della spesa pensionistica

Un altro 'intermezzo': questo articolo è già apparso a settembre su ImpresaLavoro.
Buona lettura.

-------------------------------

La spesa per pensioni rappresenta, da molti anni, la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana (non solo di quella sociale). Secondo gli ultimi dati Istat sul conto economico (consolidato) dalla Pubblica Amministrazione, la spesa per prestazioni pensionistiche nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi a fronte di una Spesa Pubblica totale di 826 miliardi; le pensioni rappresentano quindi il 31,5 % dell’intera spesa.


La spesa per pensioni rappresenta, da molti anni, la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana (non solo di quella sociale). Secondo gli ultimi dati Istat sul conto economico (consolidato) dalla Pubblica Amministrazione, la spesa per prestazioni pensionistiche nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi a fronte di una Spesa Pubblica totale di 826 miliardi; le pensioni rappresentano quindi il 31,5 % dell’intera spesa.



A cosa si deve questo primato? Sicuramente all’elevata quota di anziani all’interno della popolazione italiana; ma l’invecchiamento della popolazione da solo non basta, e non spiega infatti in che modo altri paesi con identici problemi demografici, come Germania o Giappone, possiedono percentuali molto più contenute. Se l’aumento della spesa è dovuto all’invecchiamento della popolazione, inoltre, è lecito chiedersi quanto possa essere sostenibile la spesa pensionistica in futuro, considerando che la quota di ‘anziani’ in Italia continuerà a crescere ancora per diversi decenni.



Per comprendere l’origine dell’elevata spesa pensionistica italiana su Pil e la sua sostenibilità futura (e quindi anche per capire cosa si è fatto e cosa si prevede di fare per contenerla), può essere utile scomporre tale rapporto secondo diversi fattori, così come svolto, per esempio, da Epc-Wga (EPC’s Working Group on Ageing Populations and Sustainability, un gruppo di lavoro costituito, sin dal 2001, dal Comitato di Politica Economica dell’Unione Europea per studiare proprio le conseguenze economiche e di bilancio dell’invecchiamento della popolazione) o dal Ministero dell’economia e delle finanze italiano (Mef – che elabora le previsioni della spesa italiana per Epc-Wga); ad esempio:
La spesa pensionistica su Pil potrebbe essere così scomposta:





Analizziamo i diversi fattori dell’ultima espressione.


Il primo fattore è l’indice di dipendenza (dependency ratio): rappresenta la quota di anziani (65 anni e più) sulla popolazione totale. Indica quindi il livello di ‘invecchiamento’ di una certa popolazione.
Il secondo fattore è il tasso di copertura (coverage ratio): rappresenta il numero di pensionati (o il numero di pensioni) rispetto al numero di ‘anziani’ (over 65); questo fattore è legato ai requisiti per l’accesso alla pensione, tra cui l’età di pensionamento.
Il terzo fattore rappresenta il rapporto tra il reddito pensionistico medio e la produttività media, detto rapporto di beneficio (benefit ratio); fornisce quindi una misura della ‘generosità’ degli assegni pensionistici in confronto all’andamento economico del paese (produttività), quindi alla capacità stessa di finanziare le pensioni. Notiamo che questo fattore non va confuso con il tasso di sostituzione (rapporto tra reddito pensionistico medio e ultima retribuzione percepita).
L’ultimo fattore, inverso del tasso di occupazione, rappresenta l’effetto dovuto al mercato del lavoro (labour market ratio).
Questa scomposizione, molto semplice, utilizza tuttavia dei fattori per certi aspetti poco significativi; qui utilizzeremo quindi quelli presenti nell’ultimo rapporto EPC-AWG (The 2015 Ageing Report), riferiti alle pensioni dei paesi europei (a partire dal 2013, con previsioni fino al 2060 a intervalli di cinque anni):
L’indice di dipendenza visto prima è sostituito con il rapporto tra gli over 65 e la popolazione con età compresa tra i 20 e i 64 anni. In questo modo si ha un confronto più efficace tra la popolazione anziana e la popolazione in età da lavoro.
Il rapporto di beneficio è calcolato sulla retribuzione media invece che sul pil/occupato.
Da ultimo, il labour market ratio include il tasso di occupazione calcolato sulla popolazione 20-64.

La situazione attuale

Vediamo innanzitutto la spesa pensionistica su Pil per i vari paesi europei per l’anno 2013 (in tutti i grafici verranno evidenziati i valori riferiti a Italia, Germania, Spagna, Francia, Grecia e i valori medi EU28). In questo caso, il livello per l’Italia è inferiore soltanto a quello della Grecia.



L’Italia ha l’indice di dipendenza più alto, ma si noti anche – come già evidenziato – il valore tedesco, prossimo a quello italiano.




Riguardo al tasso di occupazione, quello italiano è uno dei più bassi, e meno occupati significa ovviamente meno redditi e quindi meno contributi (e tasse); ovvero una minore capacità di finanziare la spesa pensionistica. Su questo fattore si concentra anche gran parte della differenza rispetto alla Germania.



Il tasso di copertura italiano risulta più basso rispetto alla media europea (e molto più basso di quello francese), ma più alto di quello tedesco, spagnolo e greco.



Infine, per il rapporto di beneficio, ovvero riguardo alla generosità dei trasferimenti pensionistici rispetto alle retribuzioni medie, l’Italia, insieme alla Grecia e alla Spagna, presenta indici più elevati della media, della Francia, ma soprattutto della Germania.



L’analisi di questi fattori, per il 2013, ci conferma quindi in che modo le varie riforme italiane, degli anni ’90 e 2000, hanno operato per cercare di contenere la spesa pensionistica: per compensare l’invecchiamento della popolazione (indice di dipendenza) e il basso tasso di occupazione, si è ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Si è fatto invece poco o nulla per contenere, o addirittura ridurre, come avvenuto in Germania, il livello degli assegni pensionistici.

Le previsioni per il futuro

Ma come si potrà contenere la spesa pensionistica per il futuro, considerando che l’invecchiamento della popolazione italiana peggiorerà ancora per molti anni, se fino ad ora si è ottenuto così poco? Le previsioni elaborate dal Mef sembrano molto ottimistiche, e stimano che la spesa pensionistica su Pil potrà rimanere all’incirca al livello attuale. Vediamo come.



La spesa pensionistica su Pil diminuirà leggermente (-0,4 p.p.) fino al 2020, tornerà a crescere ma in maniera contenuta fino al 2040 (+0,1 p.p. rispetto al 2013), da quel momento inizierà a scendere.

L’indice di dipendenza continuerà a crescere (ma in maniera più contenuta, come vedremo a breve), trainando la crescita della spesa. Anche il rapporto di beneficio continuerà a crescere, nonostante tutto, fino al 2025, per tornare al livello attuale dopo il 2040 e fornendo poi un contributo negativo (facciamo notare che dal 2035-2040 circa, inizierà ad entrare nel sistema pensionistico italiano la generazione “contributiva”). Il contributo maggiore al contenimento della spesa verrà, come si vede, dall’ulteriore riduzione del tasso di copertura, attraverso il continuo innalzamento dell’età pensionabile. Un ulteriore aiuto verrà anche dell’effetto sul mercato del lavoro, ovvero principalmente dalla (prevista) crescita del tasso di occupazione.

Vediamo un confronto con gli altri paesi, considerando il contributo che ciascun fattore fornisce alla variazione globale del rapporto ‘spesa pensionistica/pil’ dal 2013 al 2060.



Una osservazione riguardo all’andamento dell’indice di dipendenza: come visto, l’Italia ha oggi l’indice di dipendenza più elevato tra i paesi europei, ma nei prossimi anni la sua crescita sarà inferiore a quello di molti altri paesi (Germania, Grecia, Spagna, Portogallo, Polonia, etc.). Tale risultato, secondo le previsioni, sarà ottenuto soprattutto attraverso un maggior tasso di immigrazione netto.



Tornando alle componenti:





Per comprende meglio l’impiego dell’effetto di copertura per il contenimento della spesa, utilizziamo questo grafico, con l’età (media) di uscita dal mercato del lavoro per il 2013 e 2060. Come si può notare questo valore sarà nel 2060 tra i più alti (67,4 anni), e con una variazione rispetto all’età 2013 tra le più elevate (5,1 anni).



I rischi per il futuro

Ognuna delle componenti finora analizzate è il risultato di diversi fattori, che contengono un certo grado di incertezza: il tasso di occupazione, l’indice di dipendenza (che, come visto, è legato al tasso netto di immigrazione), lo stesso benefit ratio (che dipende anche dall’andamento del Pil per occupato, o dalle retribuzioni medie) non sono direttamente controllabili dai governi, i quali possono solo sperare di riuscire a migliorare questi fattori “a suon di riforme”, dall’esito comunque sempre incerto. È fondamentale quindi comprendere in che modo il rapporto “spesa pensionistica/Pil” sia sensibile a questi fattori, e come potrebbe modificarsi se qualcuno di questi non dovesse rispettare le previsioni.
L’ultimo rapporto Epc-Wga stima queste variazione per ognuno dei seguenti fattori (negativi):
Una maggior crescita della speranza di vita alla nascita (al quale è legato l’indice di dipendenza) di due anni al 2060, comporterebbe una variazione di +0,4 p.p. .
Un tasso di immigrazione più basso del 20 % darebbe un +0,4 p.p.
Una crescita della produttività del lavoro più bassa di -0,25 p.p. darebbe un +0,5 p.p.
Una crescita della produttività totale dei fattori più bassa (0,8% invece che 1%) darebbe +0,7 p.p.
Una crescita dell’occupazione inferiore (2 p.p. rispetto alla previsione 2060) avrebbe invece un effetto limitato, inferiore a +0,1 p.p.
Il peggioramento di tutti questi fattori (secondo le variazioni stimate) potrebbe comportare quindi una variazione globale di 2,1 p.p nel rapporto “spesa pensionistica/pil” a fronte della variazione di -1,9 p.p totale prevista.
Ma quanto sono realistiche o ottimistiche le previsioni su queste componenti? Vediamolo, in particolare per produttività e tasso di occupazione, confrontando i valori previsti con quelli del passato (utilizzando i dati dell’ultimo rapporto RGS).





Come si vede, le previsioni sembrano abbastanza ottimistiche: la produttività dovrebbe tornare a crescere ai tassi degli anni ’70 e ’80 (dopo che è rimasta quasi ferma per gli ultimi 20 anni); il tasso di occupazione, da sempre a livelli molto bassi in Italia, dovrebbe arrivare livelli più “normali” (per gli standard degli altri paesi).

E se queste previsioni dovessero, nella realtà, risultare scorrette? È ovvio che in questo caso, per controbilanciare questi effetti, la politica dovrebbe intervenire nuovamente sugli unici fattori direttamente controllabili, l’età di accesso alla pensione (già di molto alzata) e l’entità degli assegni pensionistici (già ridotti), rendendo sempre più povere le future pensioni.



mercoledì 26 ottobre 2016

Italia e Germania: pensioni a confronto

Questo articolo è stato scritto qualche settimana fa e già pubblicato su TheFielder; lo ripubblico qui come 'intermezzo' alle mie 'lettere'.

--------------------------------------------

Molto spesso, quando i mezzi d’informazione parlano di pensioni, lo fanno sottolineando l’esiguità degli assegni pensionistici. Dopo la pubblicazione dell’ultimo Rapporto annuale dell’INPS a luglio, per esempio, il titolo più frequente degli articoli che trattavano la notizia, riportandone i contenuti, era “Il 38% dei pensionati prende meno di mille euro al mese”. Ma quanto sono veramente “povere” (o ricche) le pensioni italiane?

Per rispondere a questa domanda andrebbero confrontate con quelle d’altri Paesi, secondo i redditi o le pensioni medie, o, meglio ancora, attraverso le distribuzioni per classi di reddito. Purtroppo questo tipo di confronti non è sempre possibile, perché molti Paesi non dispongono di dati sempre aggiornati di questo tipo, o perché, quando esistono, i dati sono troppo disomogenei, per forti differenze tra i sistemi pensionistici dei vari Paesi, a livello di classificazioni, gestioni e regole.

Pur consapevoli di questi limiti, possiamo tentare un confronto diretto con qualche singolo Paese, scegliendo i dati più opportuni tra quelli disponibili. Qui proveremo a farlo con la Germania, anche perché è un Paese che presenta caratteristiche demografiche molto simili all’Italia, cioè una popolazione molto “anziana”.

I dati per la Germania provengono dall’ultimo rapporto sul sistema pensionistico del Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali (www.bmas.de); sono relativi ai redditi pensionistici 2015 del sistema pensionistico obbligatorio (che generalmente non comprende le pensioni degli autonomi e dei dipendenti pubblici). Per i dati italiani useremo quelli del XV Rapporto annuale INPS, che contiene i redditi 2015. Per un utile confronto “interno”, indicheremo anche la retribuzione media dipendente per lo stesso anno (retribuzione calcolata al netto dei contributi sociali, di fonte Eurostat).

I redditi pensionistici appartengono generalmente a tre diverse tipologie: pensioni di vecchiaia (vecchiaia o anticipata), pensioni di reversibilità (per vedove/i e orfani), pensioni d’invalidità. Ovviamente ogni pensionato può essere beneficiario di una o più pensioni, anche di diversa tipologia, per cui i dati tengono conto di questa differenza.

REDDITI PENSIONISTICI IN GERMANIA, 2015
(Euro/mese, assicurazione pensionistica obbligatoria)


Questa invece la situazione dei redditi pensionistici INPS (che comprende anche pensioni di tipo assistenziale):

REDDITI PENSIONISTICI IN ITALIA, 2015

(Euro/mese, INPS)


Inseriamo qualche grafico per confrontare meglio questi numeri.







Passiamo ora al confronto sulla distribuzione per classi di reddito.

 DISTRIBUZIONE DEI REDDITI PENSIONISTICI 2015

(percentuale di pensionati nella classe su totale)




I risultati del confronto sono quindi ben evidenti: i redditi pensionistici italiani sono molto più generosi di quelli tedeschi.

Qualcuno potrebbe sottolineare che la cosa è del tutto logica, dato che la Germania ha un sistema pensionistico diverso dal nostro, ma così dicendo ci fornirebbe subito la risposta al problema. Perché in Italia non abbiamo creato un sistema pensionistico più simile a quello tedesco, capace di fornire pensioni “adeguate” ma con una spesa contenuta?

La differenza sta ovviamente nella diversa concezione dei compiti di un sistema pensionistico pubblico. Da noi, almeno col vecchio sistema retributivo, le pensioni dovevano garantire (quasi) lo stesso reddito raggiunto dal lavoratore a fine carriera, indipendentemente dai contributi versati, indipendentemente dallo stato dell’economia, e quindi della “capacità contributiva” nazionale; e così, assegni pensionistici di 3 mila, 4 mila, 5 mila euro al mese e oltre, magari pagati da più di 30 anni, ingrossano enormemente la spesa totale, che pesa sui contribuenti.




venerdì 21 ottobre 2016

A chi è servito il debito pubblico?

Nella 'lettera' riguardante l'analisi della spesa pubblica in base alle sue diverse componenti (funzionali), abbiamo osservato che le principali anomalie italiane derivano dalla spesa pensionistica e dal costo del debito (nonostante i risparmi ottenuti negli ultimi anni).
Nelle ultime due lettere ci siamo occupati della rapina pensionistica (e torneremo sull'argomento in futuro); è venuto quindi il momento di parlare del debito pubblico italiano.
Sarà un post molto lungo, mi scuserete, perché l'argomento lo richiede, anche solo per una analisi molto generica (anche in questo caso, torneremo comunque sull'argomento).

L'ultimo dato aggiornato di Banca d'Italia (agosto 2016) ci informa che il debito pubblico ha ormai raggiunto la quota di 2.225 miliardi. A fine 2015 era arrivato a 2.194,5 miliardi, il 134,8% del Pil.
Questo dato ci colloca nelle prime posizioni mondiali per debito su pil.
Da dove deriva questo debito elevato?


Il problema del debito pubblico in Italia


Quello dell'elevato debito pubblico è un problema 'cronico' dello stato italiano, fin dalla sua nascita; al momento dell'Unità derivava principalmente dalle folli spese militari operate dai Savoia per conquistare il resto d'Italia. Il debito pubblico infatti è stato utilizzato spesso dagli stati per finanziare le proprie guerre (di difesa o di aggressione), ma proprio questo fatto rende ancora più straordinario ed eccezionale l'aumento del debito pubblico avvenuto dopo la seconda guerra mondiale (non solo in Italia).



Nell'immediato dopoguerra, l'eccezionale inflazione di quegli anni riuscì a ridurre il debito al minimo del 24% del pil (1946) (a danno dei creditori dello stato); per circa vent'anni si riuscì a mantenerlo a quel basso livello (anche per la crescita del Pil), ma tornò a crescere a metà degli anni '60: dal 30% del 1965 giunse a poco meno del 60% nel 1978, e poi, con una accelerazione ancora maggiore, fino al 121,8% del 1994. Poi il debito su Pil è ridisceso fino al 99,7% del 2007, ed è tornato a crescere di nuovo con l'inizio della crisi economica (soprattutto per il crollo del pil).

Le due fasi della gestione del debito

Occorre però chiarire subito un punto essenziale, perché si sente spesso molta gente lamentarsi che "il governo continua ad aumentare il debito...e chissà per quale spesa inutile":
Il bilancio pubblico, in epoca "repubblicana", ha sempre operato in disavanzo, ovvero finanziandosi con debito, ma un conto è fare debito per finanziare la spesa vera e propria (primaria), un conto è farlo solo per (ri)pagare quello vecchio; piuttosto che al disavanzo quindi, bisogna guardare al disavanzo o avanzo primario. 
[per disavanzo/avanzo primario s'intende la differenza tra entrate e spese pubbliche quando a queste ultime sono sottratti gli interessi, ovvero il costo del debito].
In questo senso, dal dopoguerra ad oggi, possiamo distinguere due fasi: 


Fino al 1992 la pubblica amministrazione ha finanziato le proprie spese (primarie) con ampi disavanzi primari; dal 1992 invece ha sempre accumulato avanzi primari (ad eccezione del 2009).
Ciò significa che dal 1992 nemmeno un centesimo (o quasi) del debito ha finanziato spesa vera e propria (primaria), il nuovo debito è servito solo per rinnovare quello vecchio e ripagare parte degli interessi. 
Nell'immediato dopoguerra il disavanzo primario della spesa pubblica era attorno al 5% del pil; è poi diminuito fino ad annullarsi nel 1960 (ma senza arrivare a produrre avanzi primari), poi i disavanzi primari sono tornati a crescere finoal massimo del 1975, attorno al 12%; poi sono diminuiti fino a cambiare di segno e diventare quindi avanzi primari nel 1992, come già detto. 
Da questo deriva, ovviamente, un enorme vantaggio per i contribuenti della prima fase, che beneficiavano di una certa spesa pubblica, senza il corrispondente onere fiscale, e un enorme svantaggio invece per i contribuenti della seconda fase, che hanno dovuto pagare pesanti tasse, senza alcun beneficio diretto.
Per meglio valutare il vantaggio ottenuto dai contribuenti nella prima fase, proviamo a valutare i disavanzi primari in rapporto alla spesa pubblica totale invece che al Pil (i dati della spesa pubblica dal 1980 sono quelli Istat, per gli anni precedenti si sono integrati i dati dei bilanci dello stato con quelli degli enti di previdenza; maggiori dettagli su queste stime verranno dati in futuro).



Come si può vedere, nell'immediato dopoguerra il 30% della spesa totale era finanziata in deficit; questa quota si è ridotta fino ad azzerarsi nel 1960 (come già visto), ma è poi tornata a crescere, e nel 1975 la quota di spesa pubblica finanziata dal debito era ancora del 30%. Poi è via via diminuita fino ai primi anni '90. Dal 1992 in poi, come detto, il bilancio dello stato ha invece iniziato ad 'assorbire' tasse per pagare il costo dell'elevato debito fin lì accumulato.
E' ben evidente quindi l'enorme 'alleggerimento fiscale' ottenuto dalla generazione della 'prima repubblica' (la prima fase corrisponde abbastanza bene con questa definizione). Se l'intera spesa pubblica fosse stata finanziata tramite tasse, la pressione fiscale sarebbe dovuta crescere di molto. A titolo di esempio, nel 1975, invece di essere al 20%, avrebbe dovuto essere già al 35%.

Si noti che fino al 1975 disavanzi e disavanzi primari erano molto simili, in quanto la spesa per interessi era molto bassa. Fino a quest'epoca infatti, gli aumenti del debito pubblico, e quindi della spesa pubblica, erano finanziati ampiamente dagli acquisti della Banca d'Italia, attraverso la creazione di denaro (monetizzazione del debito), e dato che la Banca d'Italia 'lavorava per lo stato' era indifferente per lei acquistare debito con tassi d'interessi bassi o anche negativi.
Il quadro è mutato radicalmente quando, a partire dal 1975, per finanziare il debito pubblico, si è fatto sempre più affidamento sul risparmio privato. 

All'interno di questa fase di 'spesa in deficit' (prima repubblica), tra l'immediato dopoguerra e i primi anni '90, potremmo quindi distinguere due ulteriori fasi: una prima fase, per quasi 30 anni, fino al 1975, in cui il deficit era finanziato dalla Banca d'Italia; poi, fino al 1992, in cui il Tesoro si è rivolto al 'pubblico' per coprire, e aumentare, il debito.
I due grafici seguenti, rappresentano un po' meglio le conseguenze di queste diverse fasi.




La prima fase (con la monetizzazione del debito) ha senz'altro permesso un crescita economica molto rapida, ma accompagnata anche da una elevata inflazione.
Proprio per combattere quest'ultima (almeno secondo le dichiarazioni 'ufficiali') dalla metà degli anni '70, l'intervento della Banca d'Italia si è ridotto sempre più, ma non abbastanza.

A cosa è servito il debito pubblico?

Ma quali spese sono state finanziate a deficit?
Visto che i dati relativi alla spesa della pubblica amministrazione completa (e divisi per voci economiche e funzioni) partono solo dal 1980, dobbiamo accontentarci di rispondere alla domanda da questo secondo periodo.
Ci può essere utile partire da questo grafico, che rappresenta le variazioni delle voci principali rispetto al livello del 1980.



La spesa pubblica è cresciuta (rispetto al 1980) molto rapidamente, fino ad un + 18%; le entrate sono cresciute anch'esse, ma solo di un +9%, la metà; il resto è stato finanziato a deficit. 
Nel grafico sono indicati anche la variazione della spesa per interessi, e della spesa pensionistica;  come possiamo vedere da quest'altro grafico infatti, pensioni e interessi rappresentano gli unici aggregati realmente aumentati dal 1980. Gli interessi sono aumentati fino ai primi anni '90, per poi tornare ai livello degli anni '80. Le pensioni sono cresciute continuamente. Il resto della spesa al netto di pensioni e interessi, è rimasta abbastanza costante, attorno al 25% del Pil.




Notando inoltre la somiglianza tra la crescita della spesa per interessi e delle entrate (nel grafico sulle variazioni), potremmo dire che l'aumento delle tasse è servito, fino ai primi anni '90, per pagare gli interessi sempre più alti del debito; il deficit è servito per finanziare gli aumenti della spesa pensionistica. Dopo, l'elevato livello di pressione fiscale è servito per continuare a pagare il costo del debito e la sempre più alta spesa pensionistica.

A chi è servito il debito pubblico?

La spesa a deficit quindi è servita per finanziare principalmente l'aumento della spesa pensionistica, oltre al costo del debito stesso, ma a mio parere non è corretto limitarsi a valutare quale spesa (primaria) è stata finanziata in deficit, considerando invece l'aumento della spesa per interessi solo come uno spiacevole effetto collaterale: a mio parere l'aumento degli interessi era il vero scopo di questa scellerata fase di aumento del debito.
Potrà sembrare una tesi molto ardita, insensata: un costo (del debito) più alto dovrebbe essere contro l'interesse generale e quindi contro l'interesse stesso dello stato. Sarebbe assurdo che lo stato volesse pagare alti interessi.
L'errore di fondo è pensare che la classe politica operi per il benessere generale (per il bene comune, come si suol dire).
La tesi di questo blog, lo ripetiamo, è invece questa: lo stato è una associazione a delinquere, che quindi cerca sempre di distribuire vantaggi, regali, denaro ad un insieme più o meno ampio di cittadini (che potremmo considerare complici, o spesso anche mandanti delle rapine di stato).
L'aumento degli interessi, se da una parte rappresenta un maggior costo per lo stato, per chi li riceve, diventano elevate rendite.
Del resto, la quota di debito utilizzata per coprire spese vere e proprie è molto ridotta in confronto a quella che è servita per pagare interessi, lo vediamo qui. Dobbiamo quindi valutarla nel suo effettivo peso.



Dal 1980 al 1992, l'aumento del debito ha finanziato poco meno di 500 miliardi di euro (a valori del 2014, cumulati), gli interessi pagati (fino al 2012, rivalutati e cumulati) sono invece arrivati a quasi 3500 miliardi.

Lo schema Ponzi del debito

L'aumento del debito pubblico, a partire da metà anni '70, ha funzionato come un enorme schema Ponzi:
Ammettiamo che una persona abbia una certa quantità di risparmi da investire, e che i 'normali' interessi di mercato siano attorno al 3-4%;
Ma arriva un Ponzi che offre ai possibili investitori tassi di interesse molto più elevati, ad esempio del 6-7%; qualcuno deciderà di prestare soldi a Ponzi, anche se all'inizio ci sarà una certa diffidenza; in seguito però la fiducia cresce, perché Ponzi paga effettivamente gli interessi promessi; e come fa? Utilizzando i sempre maggiori capitali che riesce a raccogliere, offrendo interessi più alti. 
Gli interessi pagati da Ponzi derivano quindi solo da questo: dall'aumento progressivo del numero degli investitori, non da migliori investimenti che Ponzi fa con quel capitale.
Ma per attirare sempre più investitori, per sostenere il sistema, Ponzi dovrà offrire tassi sempre più alti.
Ad un certo punto però il sistema diventa insostenibile, e Ponzi scappa con la cassa.
E gli investitori perdono quasi tutto, o quasi.

Col debito pubblico si è fatto qualcosa di molto simile, con la differenza che gli investitori non sono rimasti fregati: gli alti interessi se li sono tenuti, senza perdere nulla.
Si doveva coprire con i risparmi privati un debito che grazie alla monetizzazione precedente (interventi della Banca d'Italia) era ormai prossimo al 60% del Pil. 
Per attirare investitori, si dovevano offrire alti interessi, per lo meno più alti di quelli di mercato; gli interessi venivano pagati con le nuove emissioni, ovvero attirando sempre più capitali, e per far questo si dovevano offrire interessi sempre più alti. 
Ma quanto erano alti gli interessi di stato? Lo vediamo da questi grafici.



Il primo utilizza i valori degli interessi reali pagati, globalmente.


Il secondo, più 'puntuale', riprende i tassi di interesse reale pagati anno per anno, per i diversi titoli (fonte Tesoro).

Un altro modo, indiretto, per valutare i benefici ricevuti dai possessori di titoli di stato negli anni '80, i cosiddetti bot-people, è attraverso la quota di reddito da interessi sul reddito disponibile totale delle famiglie, specie in confronto a quanto avvenuto in altri paesi. Purtroppo i dati disponibili partono da metà anni '90, mancando quelli precedenti, ma il livello iniziale italiano può darci un'idea di quale fosse l'andamento anche precedente.


Anche negli altri paesi la quota di interessi sul reddito delle famiglie è via via diminuito, per il calo degli interessi, ma partivano da valori prossimi al 6-8%, quando in Italia erano al 14-15%, il doppio.

Quest'altro grafico, di fonte Istat, parte invece dal 1990, per il dato nazionale, e da metà anni '90, per quelli territoriali. All'inizio degli anni '90, il 14% del reddito delle famiglie proveniva dagli interessi; una quota ancora più elevata nel Nord-Ovest, in particolare in Lombardia.



Si può quindi comprendere la corsa all'oro, anzi..ai titoli di stato che c'è stata in Italia negli anni '80 e '90.

Ma quanto è costato ripagare il debito, e con quel risultato?

"Scoppiato" lo schema Ponzi degli anni '80, si trattava poi di pagare il debito accumulato, arrivato ormai oltre il 120%. Impossibile chiedere ai nuovi contribuenti di ridurlo, avrebbe comportato un onere elevatissimo, e così ci si è limitati a gestirlo, continuando ad un utilizzare sempre più tasse solo per pagare (parte de)gli interessi.
Ma quanto ci è costato? Vediamo questo grafico.


Come abbiamo visto gli avanzi primari corrispondono alla quota di tasse prelevate ai contribuenti per pagare parte degli interessi. Dal 1992 ad oggi quindi, rivalutando ai valori del 2015 tutti gli avanzi primari fatti in questi anni, e cumulandoli, arriviamo a quasi 1000 miliardi.
Mille miliardi pagati dai contribuenti... per NULLA.
Veramente per nulla, soprattutto, perché questi sacrifici dei contribuenti non sono nemmeno serviti per ridurre il debito pubblico, ancora elevatissimo, nemmeno rispetto al Pil.




Appendice

Abbiamo detto più volte, nel corso di questa lettera, che i disavanzi primari indicano la parte di spesa vera e propria (primaria) finanziata in deficit, mentre gli avanzi primari indicato la parte di tasse utilizzate per pagare gli interessi.
Basterebbero queste definizioni, ma io credo che molto spesso, per comprende meglio questi principi, sia meglio vederli, attraverso una rappresentazione grafica.
Questo ci consente anche di toccare un altro argomento:
Il bilancio della pubblica amministrazione non riesce a rappresentare completamente l'entità del bilancio pubblico, e quindi anche il 'peso' effettivo del debito, perché manca della gestione "dal lato tesoro" (con l'entità delle emissioni lorde e del debito in scadenza).
A titolo di esempio, proviamo a formare un bilancio completo, integrando i valori del bilancio noti con i dati del Tesoro, per l'anno 2000 (l'anno con il più alto avanzo primario).


Da qui, prima di tutto, possiamo comprendere meglio l'entità della parte di debito che ogni anno deve essere rinnovata (attualmente è di circa 400 miliardi), e quali rischi questo comporti per la stabilità dei bilanci pubblici: se il debito offerto non dovesse trovare acquirenti (o acquirenti disposti ad acquistarlo per un dato prezzo/interesse), dovrebbe essere ripagato con tasse sempre più alte. E ne abbiamo avuto una prova in tempi recenti. Ma vediamo il grafico più nel dettaglio.


Da questo 'dettaglio' del grafico precedente è più chiaro il 'parallelo' tra entrate totali e uscite totali; si vede quindi meglio quanto detto finora: l'avanzo primario serve a coprire il pagamento di una quota più o meno ampia degli interessi (potrebbe arrivare anche a coprire tutti gli interessi e parte dei prestiti in scadenza, riducendo quindi il debito anche in valore assoluto, ma questo non è mai avvenuto).
Vediamo ora un 'dettaglio' del bilancio completo per il 1990 (uno degli ultimi anni a registrare disavanzi primari).


Qui è il disavanzo primario a coprire parte della spesa vera e propria (primaria). 

In futuro ci serviremo di queste rappresentazioni, per rendere questi fenomeni anche più visibili.