venerdì 26 maggio 2017

Sofismi pensionistici - seconda parte: l'ingiustizia del sistema pensionistico

Nella prima parte dei sofismi pensionistici abbiamo analizzato e confutato, uno alla volta, alcuni dei sofismi più diffusi, utilizzati da molti per ridimensionare, sminuire o negare la Rapina Pensionistica. Con questo articolo vogliamo proseguire con questa analisi.

Altri sofismi molto usati sostengono che:

1) "Io la pensione me la sono pagata, e tutta; non ho rubato nulla a nessuno".

2) "Se avessi potuto farmi una mia pensione, con i miei soldi, sarebbe stata anche più alta, e non toglievo nulla a nessuno".

3) "Io non posso farci niente. Non ho mica fatto io la legge. La pensione me la sono trovata" ... oppure "prendo solo quello che prevede la legge".

4) "non si può sapere se i pensionati retributivi hanno rubato qualcosa, perché i calcoli per stabilirlo non si possono fare".

Abbiamo riportato questi sofismi tutti insieme (a differenza del precedente articolo), perché sono legati, a nostro parere, da un unico filo, da un unico tema: l'iniquità - o meglio l'ingiustizia - del sistema pensionistico italiano. Questa sarà quindi la tesi da discutere, per confutare in una volta sola, tutti questi sofismi.
Se il sistema pensionistico italiano fosse giusto ed equo - nonostante l'alta spesa - queste affermazioni sarebbero in qualche modo corrette: nessuno avrebbe 'rubato nulla'.. molti forse avrebbero persino potuto farsi 'una pensione migliore'.
Ma se qualcuno ha invece ottenuto condizioni di favore, più generose, dato il nostro sistema a ripartizione (in cui le pensioni in essere sono pagate dai lavoratori) allora queste generose condizioni non possono che riflettersi in un maggiore sacrificio per i contribuenti. Sacrificio che forse non sarà nemmeno ripagato in futuro, al momento della loro pensione.
Vogliamo quindi mostrare che alta spesa pensionistica e generosità del sistema retributivo sono direttamente legati.



Ci limiteremo quindi a studiare l'iniquità del sistema pensionistico in relazione ai due diversi sistemi adottati, nel passato (il sistema retributivo) e nel presente/futuro (sistema contributivo); tratteremo quindi il problema della iniquità tra generazioni (inter-generazionale) del sistema pensionistico; ben consapevoli che notevoli distorsioni e ingiustizie sono presenti anche all'interno dello stesso sistema retributivo, non tratteremo invece (almeno per ora) il problema dell'ingiustizia intra-generazionale.

L'iniquità del sistema pensionistico

Da cosa deriva questa iniquità? Come valutala, come misurarla?
Si possono, a mio parere, adottare due 'metodi', che chiamerò 'metodo statalista', e 'metodo liberale'.

Definizione del 'metodo statalista'.

Il 'metodo statalista', accetta come un dato di fatto che sia compito dello Stato assicurare a chi non può più lavorare, una pensione (ovvero un reddito che consenta al pensionato di mantenere, all'incirca, lo stesso tenore di vita che aveva quando lavorava). Anche in questo caso però, possono originarsi 'iniquità' e 'ingiustizie': accade sicuramente se il sistema pensionistico pubblico, al suo interno, o tra diverse generazioni, applica condizioni molto differenti per diversi gruppi di cittadini, più generose per alcuni soggetti, meno per altri.
La misura dell' iniquità del sistema pensionistico pubblico, quindi, deve nascere dal confronto diretto di 'condizioni' tra pensioni retributivi e pensioni contributive; si tratta di un confronto solo 'interno' quindi, che non tiene conto delle diverse condizioni al di fuori della prospettiva 'pubblica'.
Questo sarà anche il confronto più semplice da fare, perché quasi tutte le stime circa l'iniquità del sistema pensionistico, di fonti diverse, seguono quasi sempre questo metodo.

Definizione del 'metodo liberale'

Secondo un punto di vista 'liberale', invece, il confronto diventa 'esterno', tra i rendimenti garantiti dalla pensione pubblica e i rendimenti che si sarebbero potuti ottenere con impieghi alternativi di quel risparmio: Chi riceve una pensione pubblica più alta di quella 'di mercato', riceve senz'altro un beneficio, un regalo; chi riceve una pensione più bassa, subisce sicuramente un danno.


Richiamo delle regole retributive e contributive

Prima di procedere con la discussione, sarà utile ricordare brevemente le 'regole' principali dei due sistemi, (senza alcuna pretesa di completezza). Chi crede di conoscerle già abbastanza, potrà saltare questa parte:

Il sistema retributivo:

Secondo il sistema retributivo, il pensionato che ha raggiunto i requisiti per andare in pensione riceve un assegno pensionistico pari ad una quota della 'ultima retribuzione' da lavoro. Questa 'ultima retribuzione' è calcolata come media delle retribuzioni (rivalutate all'ultimo anno) di un certo periodo, più o meno ampio; tale periodo può essere di 5 anni (come nel passato, per la quasi totalità delle gestioni), oppure 10 anni, o un periodo anche più lungo; ma può essere anche più breve, fino a considerare soltanto l'ultima mensilità di retribuzione (come per le pensioni dei sindacalisti - fonte di tante polemiche, ma mai toccate).
Il rapporto tra pensione e retribuzione, quello che viene generalmente chiamato tasso di sostituzione, per le pensioni retributive era generalmente dell'80%; infatti il sistema retributivo (italiano) assegnava generalmente un 2% di tasso di sostituzione per ogni anno di contribuzione. Per cui, con 40 anni di contribuzione si arrivava a questo 80%.
[Alcune gestioni avevano condizioni anche più favorevoli: per esempio, ai dirigenti d'azienda erano sufficienti 30 anni di contributi, invece che 40, per raggiungere questo 80%]
Sottolineiamo che già in questo si nota una particolarità tutta italiana: il sistema retributivo non è stato adottato solo in Italia, ma in tutti gli altri paesi in cui era in vigore, la percentuale per ogni anno di contribuzione era molto più bassa, generalmente del 1,5%. Così, con 40 anni di lavoro si raggiungeva solo il 60% di tasso di sostituzione. Con una spesa globale ben inferiore.
Va notato, inoltre, che questo tasso di sostituzione è calcolato come lordo (il confronto è fatto sulle retribuzioni da lavoro lorde). Considerando però che un pensionato non paga più contributi, ma solo imposte sui redditi, questo 80% può anche arrivare ad un 90% netto e più.

Nel retributivo non contavano quindi quanti contributi si sono versati, ma quanti anni di contributi si sono versati, e naturalmente, la retribuzione raggiunta. Esisteva inoltre un minimo di anni di contributi (generalmente 15) per ottenere queste pensioni di 'vecchiaia' (vecchiaia o anzianità).

La particolarità del sistema italiano permetteva anche di andare in pensione prima dell'età prevista (pensione di vecchiaia), solo sulla base degli anni di contributi versati (pensioni di anzianità [contributiva]) e senza penalizzazioni. Diciamo particolarità italiana perché anche all'estero era possibile andare in pensione prima (pensioni anticipate), ma con una decurtazione dell'assegno, generalmente consistente. In pratica, quello che si sta discutendo ultimamente, tra mille polemiche, e con mille invenzioni finanziarie (vedi sistema APE), all'estero è sempre stata la regola: "vai in pensione prima del tempo, ma con un assegno più basso", con ovvie conseguenze in termini di spesa globale.


Il sistema contributivo:

Col sistema contributivo introdotto con la riforma Dini, nel 1995, i futuri pensionati si vedranno assegnare una pensione corrispondente ai contributi realmente versati. Ma cosa vuol dire corrispondente? I contributi versati formano un montante contributivo; questo viene rivalutato ogni anno secondo la media quinquennale della crescita del Pil (questo è quindi il 'rendimento' garantito in questo sistema). Raggiunto il momento del pensionamento, questo montante viene suddiviso per avere l'ammontare dell'assegno mensile. Il 'divisore' tiene conto di vari parametri, quello fondamentale deriva dagli anni di sopravvivenza previsti al momento del pensionamento.


La riforma Dini, ha così creato 3 gruppi (o generazioni) di pensionati:
i retributivi puri, che hanno mantenuto il sistema del passato; sono coloro che, alla data del 31 dicembre 1995, avevano già 18 anni di contributi versati.
i contributi puri, i lavoratori entrati nel mercato del lavoro (e quindi nei 'conti' degli enti previdenziali) dopo questa data, ai quali verrà applicato questo nuovo sistema.
infine i retributivi/contributivi misti; ai lavoratori già attivi a quella data, ma senza il requisito dei 18 anni di contributi versati, la pensione viene/verrà calcolata pro rata

Fatte queste premesse, forse spesso lasciate sottintese, torniamo alla discussione sulla iniquità del sistema.


L'iniquità secondo il 'metodo statalista':

Per questo confronto, iniziamo col riportare alcune stime provenienti da fonti diverse, seguendo un criterio puramente cronologico.

.........................................................

I primi dati provengono dai report della Commissione Brambilla, istituita dal Ministro del Welfare, Roberto Maroni, nel 2001, col compito di analizzare il sistema pensionistico, rilevarne difetti e proporre correttivi (e presieduta dal sottosegretario Alberto Brambilla).
[abbiamo già usato questi dati in altri articoli]



In questa prima tabella sono raccolti i tassi interni di rendimento, ovvero i tassi di rendimento che danno una equivalenza attuariale tra contributi versati e pensioni ricevute.
Come si vede, tali tassi vanno da un minimo del 3% ad un massimo del 12,4%.
I tassi si riducono per il sistema misto e giungono al 1,5-1,8% per il sistema contributivo.
Si noti che - visto che il montante contributivo per le nuove pensioni viene rivalutato solo in base all'andamento del Pil -  quest'ultimo dato corrisponde alla stima (prevista) della variazione del Pil di lungo periodo. Quest'ultimo rendimento potrebbe essere maggiore o minore; negli ultimi anni, è stato ben inferiore.


Quest'altra tabella mostra un'altro indicatore, diretta conseguenza dei rendimenti visti sopra, che stima gli anni di pensione - per diverse gestioni e tipologia di pensionato -  "coperti" dai contributi versati (contributi rivalutati secondo la crescita del Pil, quindi più o meno come avviene per il contributivo). Questi, sono poi confrontati con gli anni medi di pensionamento, ricavandone delle differenze indicanti i periodi 'scoperti'.
Le differenze nel contributivo sarebbero minime, proprio perché costruito per avere una 'perfetta' equivalenza attuariale tra contributi versati e prestazioni.
Nel retributivo si va da un minimo di due anni (per i pensionati FPLD andati in pensioni più tardi) ad un massimo di oltre 22 anni per gli artigiani (con pensioni più 'precoci').
La maggior parte dei retributivi quindi, considerate anche le medie nell'età di pensionamento, vede circa una decina di anni di pensione 'scoperti'.

Anche se queste stime sono del 2001, ben poco è stato toccato da allora dei privilegi retributivi in essere, quindi possono essere considerati ancora abbastanza validi.
Il confronto è quindi ben eloquente, e mostra il 'regalo' ottenuto da molte pensioni retributive, attraverso rendimenti molto più alti di quelli che stanno ottenendo e avranno i contributivi.

[Per chi volesse approfondire i risultati della Commissione Brambilla, può trovare in questo utilissimo sito tutti i documenti.]

..................................................................

Altri dati, ben più recenti, possono essere presi da diversi articoli pubblicati nel corso del tempo dal sito lavoce.info.
Suggeriamo, in particolare, questo articolo del 2011, dal titolo eloquente: Il regalo del retributivo. (A firma di Michele Belloni e Flavia Coda Moscarola).

Si dice nell'articolo:

"Le pensioni retributive, infatti, sono caratterizzate da uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute: in alcuni casi, la differenza può essere interpretata come intervento assistenziale; in altri – e sono la stragrande maggioranza - configura un vero e proprio "regalo" messo a carico della collettività"... e nel dettaglio:
"Il trattamento più prodigo spetta ai lavoratori autonomi: a fronte di un montate di 100 euro di contributi versati sono corrisposti benefici previdenziali per 346 euro, se uomini, e per 368 euro, se donne. I dipendenti pubblici (Inpdap) percepiscono in media due volte e mezzo quanto sarebbe giustificato sulla base dei criteri di equità attuariale (il Pvr è pari a 268 per gli uomini e 249 per le donne). Per i dipendenti privati (Inps-Fpld) il regalo è meno consistente, ma ammonta comunque al 60-90 per cento di quanto versato (il Pvr è pari a 162 per gli uomini, 188 per le donne)."

(Queste stime quindi sembrano essere molto più 'severe' con le pensioni pubbliche, che secondo le stime della commissione Brambilla non sembravano discostarsi molto da quelle dei dipendenti privati)

Facciamo notare che nelle "premesse metodologiche" gli autori specificano anche:

"Nelle nostre simulazioni, un valore superiore a 100 indica che il sistema remunera i contributi corrisposti nella vita attiva a un tasso di rendimento superiore a quello che il sistema può permettersi. Ciò comporta una redistribuzione di risorse alle generazioni anziane, dalle generazioni giovani, presenti e future."

Rimandiamo all'articolo per approfondimenti.

Sottolineiamo che gli stessi argomenti erano già stati affrontati dagli stessi autori in un altro articolo su IlSole24Ore, con un passaggio ancora più incisivo:

"Contrariamente all'opinione diffusa in base alla quale «ciascuno si è pagato o più che pagato la propria pensione», gli attuali pensionati beneficiano infatti di prestazioni che, essendo calcolate in base al generoso metodo retributivo, comportano un "regalo" a carico della collettività"

...................................................................................

Altri dati ancora più approfondite e completi provengono dalle stime fatte dallo stesso Inps, all'interno della "operazione porte aperte" (promossa dal nuovo presidente Boeri):

Queste stime effettuano un ipotetico 'ricalcolo contributivo' delle attuali pensioni, per diverse gestioni; nello specifico, i contributi versati (dove è stato possibile ricostruirli) sono stati rivalutati secondo le regole contributive, quindi secondo l'andamento del pil; successivamente quanto ottenuto è stato confrontato con le pensioni effettivamente pagate.
Vediamo alcuni esempi.

le pensioni dei dirigenti d'azienda (gestione ex-INPDAI)

Le stime per questo comparto dicono che "l’88% delle pensioni subirebbe una riduzione se calcolata col metodo contributivo, e quasi una pensione su 5 una riduzione superiore al 40%."



Inoltre.. "Nel complesso considerando non il numero delle pensioni ma gli importi lordi in pagamento, si avrebbe una riduzione media del 23,4% delle pensioni in essere ricalcolandole col metodo contributivo"

Ricordiamo che ad oggi le pensioni ex-INPDAI sono in totale circa 127 mila; non molte, ma per loro si spende 6,4 miliardi. Visto che le stime di un ricalcolo contributivo indicano un risparmio del 23,4%, ciò significa che si avrebbe un risparmio di un miliardo e mezzo, e SOLO da queste 127 mila pensioni di ex dirigenti d'azienda.

Tali riduzioni dipendono fortemente dall'età di pensionamento e dall'anno di decorrenza delle pensioni. Chi è andato in pensione nel passato, oppure ad età molto basse, ha ricevuto un regalo ben consistente.





Continua l'Inps... "Ad esempio, un dirigente ex Inpdai medio, andato in pensione a 58 anni nel 1990 con un assegno pari a 3585 euro, nel 2015 ha ottenuto una prestazione di circa 1521 euro lordi al mese più alta di quella che avrebbe ottenuto con le regole contributive. Un dirigente ex Inpdai andato in pensione all’età di 63 anni nel 2013 vedrebbe il suo assegno pensionistico ridursi di circa 676 euro (passando da 5820 euro lordi al mese a circa 5144) con il ricalcolo secondo le regole del contributivo."

Qualche altro esempio...

Le pensioni dei commercianti

Dice l'Inps: "Il 91% delle pensioni in essere subirebbe una riduzione se ricalcolate con il contributivo. Per un terzo dei casi la riduzione sarebbe superiore al 50%.".

Anche in questo caso, la riduzione risente di età e anno di pensionamento.

"Ad esempio, un commerciante andato in pensione nel 2006 all'età di 58 anni con una pensione lorda mensile a gennaio 2015 pari a 3.450 euro, riceve una pensione di 1.250 euro in più rispetto a quanto percepirebbe con il calcolo contributivo. Un commerciante andato in pensione nel 2014 a 66 anni nell'ipotesi di ricalcolo contributivo vedrebbe il suo assegno pensionistico ridursi di 790 euro, passando da 2.220 euro lordi a 1.430 euro. Se gli importi assoluti delle pensioni, sia quelle attualmente erogate, che quelle frutto dell'ipotesi di ricalcolo, appaiono mediamente bassi, ciò dipende, oltre che da una contribuzione più bassa di quella del FPLD, anche dal livello particolarmente basso dei redditi delle attività commerciali su cui vengono calcolati i contributi"

Vediamo un ultimo esempio riguardante il comparto pubblico

Le pensioni del comparto difesa, sicurezza, soccorso pubblico.


Questa la distribuzione delle riduzioni con un ricalcolo contributivo.



Dice l'Inps: "Più del 90% dei trattamenti in essere subirebbe, con il calcolo contributivo, una riduzione dell'importo compresa tra il 40% e il 60%"


"Per fare alcuni esempi:
un dirigente della prefettura, andato in pensione a 60 anni nel 2010 titolare di una pensione lorda mensile 2015 di 6.450 euro, percepisce una prestazione di 3.290 euro più alta di quella che avrebbe ottenuto con il ricalcolo contributivo;
un ufficiale di Marina andato in pensione a 52 anni nel 2010 vedrebbe il suo assegno pensionistico passare dagli attuali 5.730 euro mensili a 2.750 euro;
un sottufficiale andato in pensione all'età di 54 anni nel 2013 con una pensione attuale di 3.030 euro lordi mensili avrebbe un calcolo contributivo pari a 1.520 euro."

Questi sono solo alcuni risultati, relativi ad alcune gestione INPS.
Mancano purtroppo le stime per l'intero comparto dei dipendenti privati (gestione FPLD), non sappiamo se l'Inps vorrà completarle in futuro.
Per un approfondimento, suggeriamo comunque di leggere con attenzione tutte le pagine create nella Operazione Porte Aperte.

--------------------------------------------

Il 'metodo statalista' - già con questi pochi dati - ci mostra quindi una palese discriminazione a danno dei 'contributivi', ed enormi regali per i retributivi.
Ma facciamo notare che queste stime, a nostro parere, sottostimano i reali regali elargiti ai retributivi.
Per le stime appena viste della "Operazione porte aperte", per esempio, il 'ricalcolo contributivo' è stato fatto solo sui pensionati per cui è stato possibile 'ricostruire' la storia contributiva, quindi, per quelli con decorrenza (della pensione) più recente. Per molti versi, sono quelli che hanno visto comunque ridotte le proprie pensioni, anche se in misura minima, per le recenti riforme.
I pensionati più 'anziani' non considerati in molte di queste elaborazioni devono aver avuto condizioni anche più favorevoli.
Altro fattore importante: come visto, molte di queste stime 'ricalcolano' i contributi versati secondo l'andamento del Pil del passato (così come avviene per le attuali pensioni contributive).
Nel passato la crescita del Pil è stata molto elevata, per cui anche se le pensioni dei retributivi fossero rimaste in linea con i contributi versati, avrebbero comunque ottenuto ottimi rendimenti: invece queste pensioni risultano molto più alte, spesso doppie o triple dei contributi versati, e quindi di questi altri rendimenti.

Si potrebbe pensare che questi elevati tassi di crescita, relativi agli anni '60-'90, fossero comunque soltanto 'naturali'; fortunati quindi gli attuali pensionati che ne hanno goduto; ma niente di più.
Tuttavia, io ritengo invece che la crescita del Pil del passato sia stata 'artificiale', ottenuta solo grazie all'enorme massa di liquidità creata attraverso la Banca d'Italia. Una crescita 'artificiale', ma che ci ha lasciato gravi conseguenze, come ad esempio l'enorme debito pubblico, con i relativi alti interessi che continuiamo a pagare.
E' questo un argomento su cui non ci dilungheremo, ora, ma che affronteremo presto in altro articolo.





----------------------------------------

Vogliamo però analizzare altri dati, sempre secondo il metodo 'statalista', ovvero confrontando pensioni retributive e contributive, considerando i singoli elementi che vanno a costituire le 'migliori o peggiori condizioni' di pensionamento:

1) aliquote contributive

2) tasso di sostituzione

3) età media al pensionamento

Le aliquote contributive

Le aliquote contributive obbligatorie in vigore nel passato, per ogni anno, cambiano molto a seconda del tipo di contribuente: per gestione, quindi lavoratore dipendente o autonomo, spesso per dimensione aziendale, o anche per reddito (considerando anche i vari minimi impositivi o massimali).
Non è quindi possibile riportarli tutti. A titolo di esempio, possiamo però considerare quelli in vigore nel Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, ovvero per i dipendenti privati.



Al 1953, primo anno considerato, l'aliquota era inferiore al 10% (9,18%). E' poi cresciuta nel tempo fino al 33% attuale.
Sulla base di queste aliquote annuali, possiamo calcolare le aliquote medie (aritmetiche) che ogni pensionato si è trovato a pagare durante la sua 'vita lavorativa' e quindi 'contributiva' (per questa stima considereremo una durata di contribuzione di 40, quindi senza interruzioni, anche se spesso per le retributive il periodo di contribuzione era molto più basso).
Per i pensionati retributivi l'aliquota media è andata dal 20% da chi è andato in pensione nei primi anni '90 fino al 28% degli ultimi anni. Con una media (aritmetica) del 24%.
[Si noti che la "generazione retributiva pura" è entrata in pensione fino agli anni 2010-2015, ora sta andando in pensione la generazione 'mista'; quella contributiva inizierà ad andare in pensione dopo il 2035].
I contributivi hanno finora pagato aliquote medie del 33%.
(i 'misti' ovviamente avranno avuto aliquote intermedie, tra il 28 finale dei retributivi puri e il 33 dei contributivi)

In realtà, le sole aliquote contributive non ci dicono tutta la verità sui sacrifici contributivi dei lavoratori.
Oggi, per esempio, circa 100 miliardi di finanziamento per le pensioni provengono dalla fiscalità generale, ovvero dalle tasse; ma queste sono comunque risorse tolte ai contribuenti, e che per giunta non verranno mai computate come 'contributi veri e propri' e quindi per le loro pensioni.
[questa ulteriore truffa è stata discussa qui]
L'aliquota di equilibrio, effettiva, realmente pagata dagli attuali lavoratori/contribuenti si aggira probabilmente attorno al 40%].

Vale lo stesso per i 'vecchi contribuenti retributivi'? Certamente no, perché anzi, nel passato (più precisamente fino al 1992) buona parte della spesa pubblica (primaria) - e tra questa anche la spesa pensionistica - era finanziata a deficit, tramite il debito pubblico. Quindi su quei contribuenti non ricadevano probabilmente nemmeno tutti gli oneri della spesa pensionistica.




Il tasso di sostituzione

Come spiegato all'inizio, il tasso di sostituzione rappresenta il rapporto tra l'assegno pensionistico percepito (al momento del pensionamento) e le 'ultime' retribuzioni. E' un indice quindi della maggiore o minore generosità del sistema.
Come specificato, il sistema retributivo assicurava un 2% di tasso di sostituzione (in alcune gestioni, molto di più) per ogni anno di contribuzione. Per cui, dopo 40 anni di contributi, si otteneva un 80% di tasso di sostituzione (lordo, che poteva diventare anche un 90% netto).

Per confrontare i tassi di sostituzione passati (retributivi), con quelli futuri (contributivi), ci serviamo delle simulazioni effettuate annualmente dalla Ragione Generale dello Stato per monitorare l'andamento della spesa pensionistica (e sanitaria) [vedi Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico]

Vediamo inizialmente le stime 2005, considerando alcune tipologie di pensionati: retributivi (pensionati al 2005) / contributivi (pensionati al 2045), dipendenti /autonomi (entrambi considerati senza coniuge), per anni di contributi versati (30, 35 ,40) e età anagrafica al pensionamento (60 e 65 anni).




I tassi di sostituzione di un retributivo variano tra il 70-90% di un dipendente e l'80% e (quasi) 100% di un autonomo. Per i contributivi questi tassi sono molto più bassi: 60-70% dei dipendenti, 40-65% degli autonomi.
Se osserviamo il rapporto tra i tassi dei contributivi e quelli dei retributivi sono attorno al 70-80% per i dipendenti, 55-65% per gli autonomi. Ciò significa che le pensioni dei contributivi (assegni pensionistici), in rapporto alle ultime retribuzioni da lavoro, saranno più basse del 30-40% rispetto a quelle dei retributivi.

Vediamo altri dati dagli ultimi rapporti 2016.




Si noterà una differenza interessante: tutti i rapporti sono cresciuti, attestandosi attorno 75-86%.
Questo per un motivo molto semplice: nel frattempo, rispetto al 2005, l'età di pensionamento (o meglio, quella prevista), soprattutto quella effettiva, è stata ulteriormente alzata; per i contributivi, i periodi di contribuzione diventeranno più lunghi e di conseguenza sarà più breve la durata della pensione.
Questo porterà sì ad un tasso di sostituzione maggiore, ma solo perché si usufruirà della pensione per periodi più brevi. E' molto probabile quindi che la 'ricchezza pensionistica' ricevuta (prodotto tra la pensione mensile e il numero di mensilità pagate) risulti anche inferiore.

Età al pensionamento

Ultimo fattore da considerare è l'età al pensionamento.
Ovviamente, poter accedere alla pensione molto presto ha un doppio vantaggio: aver lavorato e contribuito per pochi anni, poter godere della pensione per un periodo molto più lungo.
Dell'età di pensionamento per le vecchie pensioni retributive abbiamo già parlato in passato, si vedano questi grafici.



In Italia, l'età effettiva di uscita dal mercato del lavoro, ha toccato i minimi a metà degli anni '90, grazie alle generose condizioni di pensionamento garantite dalle pensioni di anzianità, e anche per le particolari caratteristiche di quella generazione di pensionati (che ha potuto vantare periodi di lavoro abbastanza stabili e continuativi). Tale minimo ha toccato i 59 anni per gli uomini, e i 57 per le donne. Si noti, si parla di età medie. Ma la media contiene situazioni e casi molto più 'estremi': come la ben nota categoria dei baby pensionati.

Questa bassa età di pensionamento media, associata ad un progressivo innalzamento della vita media e delle "speranze di vita", si è tradotta ovviamente in una durata media di pensionamento molto alta, attualmente attorno ai 25 anni.

E per i futuri pensionati contributivi? è ovviamente impossibile sapere oggi quando andranno in pensione i contributivi, dipenderà da molti fattori, tra cui gli anni lavorati, e i redditi percepiti.
Dobbiamo accontentarci dell'età di pensionamento 'legale': ovvero i limiti stabiliti per poter andare in pensione, per le pensioni di vecchiaia o anticipate, e sulla base dell'evoluzione futura degli scenari demografici. Questi dati sono noti, e pubblicati sempre da RGS nei suoi rapporti.


Le stime RGS prevedono un progressivo innalzamento dei requisiti anagrafici di accesso alla pensione (per via dell'allungamento della vita). Un pensionato, in generale, che voglia andare in pensione nel 2050, dovrà avere almeno 70 anni, con una pensione di vecchiaia ordinaria.
Esiste però la possibilità di accedere ad una pensione anticipata, in base ai contributi versati, e indipendentemente dai requisiti anagrafici.


Nel 2050, basterà aver accumulato solo 46 anni e 3 mesi di contributi, per gli uomini. (un anno meno per le donne).
I contributivi avranno anche un'altro 'canale di accesso' per la pensione:
"per i lavoratori neoassunti dopo il 1° gennaio 1996 (quindi per i contributivi puri),  in possesso di una anzianità contributiva minima di 20 anni e di un importo minimo (pensionistico) pari a circa 1200 euro nel 2012 (2,8 volte l'assegno sociale nel 2012) rivalutato sulla base del pil nominale"...
allora il requisito anagrafico per accedere alla pensione sarà quello indicato sotto, in pratica, pari a quello 'ordinario' meno tre anni.



Altri dati europei  ci danno un'idea più precisa della futura età di uscita dal mercato del lavoro (effettiva): nel 2050, ad esempio, sarà in Italia a 67 anni, ben oltre la media europea, di 65,4 anni; e con la crescita più rapida tra tutti i paesi europei (+5,1 anni tra il 2013 e il 2060).




Questa età di pensionamento media, sulla base delle previsioni future riguardo alla 'speranza di vita' , porteranno probabilmente a durate medie di pensionamento di 19-20 anni, quindi almeno 5 anni inferiori alle attuali 'durate retributive'.

In conclusione, i futuri pensionati contributivi, contribuiranno per molti più anni, e con aliquote molto più alte, come visto, e godranno di una pensione (assegno) - relativamente - più povera, e per una durata molto più breve.
I due effetti, anche a rischio di essere approssimativi (ma credo che i fatti futuri ci daranno pienamente ragione), potrebbero essere riassunti con questo risultato sintetico:

I contributivi, rispetto ai retributivi, verseranno il doppio di contributi (in rapporto ai loro redditi), per avere pensioni che varranno la metà.

Questo il risultato finale di questo confronto, secondo un 'metodo statalista'.

_______________________________________________________

L'iniquità secondo il 'metodo liberale'

Secondo il metodo 'liberale', come già spiegato, il confronto che essere fatto tra i rendimenti offerti dal sistema pubblico e quelli 'di mercato', ovvero i rendimenti che si potrebbero ottenere con impieghi alternativi.

Partiamo dal confronto sui rendimenti 'contributivi'.

Come specificato in precedenza, secondo il sistema contributivo, il montante contributivo viene rivalutato ogni anno secondo la variazione quinquennale del Pil. Questo è il "rendimento" (fittizio, puramente contabile, senza alcun valore finanziario) che garantisce il sistema contributivo pubblico. Come noto, negli ultimi anni il Pil è crollato in seguito alla crisi, e ancora oggi stenta a riprendere i ritmi del passato.
Le rivalutazioni dei contributi per gli ultimi anni sono quelle indicate in figura.



Si noti che per alcuni anni, recentemente, alcuni tassi di rivalutazione sono risultati anche inferiori all'inflazione; in pratica, quel montante contributivo ha perso valore.

Rendimenti molto bassi, quindi, ma per completare la nostra analisi, dobbiamo confrontarli con altri rendimenti 'finanziari'. I rendimenti di confronto potrebbero essere quelli garantiti dai fondi della previdenza complementare, oppure dalla rivalutazione TFR.
Ecco qualche numero.



Nei dieci anni dal 2006 al 2015, la rivalutazione del montante contributivo (secondo il sistema contributivo) è stata in media del 1,88% l'anno. L'inflazione dei prezzi, nello stesso periodo, ha avuto una media di 1,66% l'anno.
Ciò significa che i contributi hanno avuto una rivalutazione reale di un misero 0,22% l'anno.
Nello stesso periodo, i TFR hanno avuto rivalutazioni medie annuali del 2,34%, i fondi aperti un rendimento medio del 2,6%, (con rendimenti compresi tra un minimo del 0,7% e un massimo del 5,5%), i fondi negoziali del 3,4% (con rendimenti compresi tra un minimo del 01,79% e un massimo del 4,69%)

Come si nota quindi, la previdenza complementare (e persino il TFR) pur nelle difficoltà di questo particolare momento economico, è riuscita a garantire rendimenti ben superiori a quelli del sistema cotributivo.
La differenza, è quanto viene rapinato ai contribuenti italiani, obbligati a versare contributi altissimi, con rendimenti bassissimi, per pagare la pensione degli altri.

Questo risultato ha una portata ben diversa dalla semplice 'ingiustizia' misurata in base al confronto con sistema retributivo:
dato che "La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme" (art. 47 della Costituzione) l'attuale sistema contributivo risulta, oltre che iniquo, anche incostituzionale.

Se qualcuno volesse farsi una idea dei "rendimenti" in altri paesi, può leggersi questo, oppure questo.

.........................

Resta un ultimo confronto da fare, quello relativo alle pensioni retributive in confronto ai 'valori di mercato'. Purtroppo, il più difficile da farsi: come stabilire quanto si sarebbe potuto ottenere da un certo capitale se si fosse stato impiegato in altro modo? non è possibile saperlo, sicuramente non a livello del singolo investitore, del singolo investimento.
E' comunque possibile, tuttavia, far riferimento a rendimenti medi, in altri sistemi previdenziali di altri paesi, oppure nei mercati finanziari.
Purtroppo, sono anche questi dati, per i decenni passati, molto difficili da trovare; e purtroppo, le nostre conoscenze non ci permettono di approfondirlo.
Cercheremo di riprendere questo confronto magari in futuro, se troveremo dati migliori, per ora ci accontenteremo di fare solo qualche esempio

Ricordiamo intanto che come tassi di rendimento (interni) per il sistema retributivo potremmo considerare quelli calcolati dalla commissione Brambilla, già ricordata sopra. Mancano purtroppo diverse gestioni (manca per esempio quella dei dirigenti d'azienda, che hanno comunque goduto di condizioni molto generose, come visto)


I rendimenti più alti sono senz'altro quelli di artigiani, commercianti e (probabilmente) dirigenti d'azienda. I 'rendimenti' dei dipendenti pubblici qui non presentano grosse differenze con i dipendenti privati, ma sono considerati solo 'dipendenti ministeriali' e degli 'enti locali'; nell'articolo citato di Belloni - Moscarola (lavoce.info o IlSole24ore), i "regali" sembrano più evidenti.

Per i possibili rendimenti 'alternativi', non avendo per ora trovato fonti migliori, mi limito a citare questo articolo sui rendimenti azionari di lungo periodo.





Il rendimento medio di lungo periodo (20 anni) in azioni è stato di circa il 5%, mentre il rendimento in obbligazioni governative sarebbe stato del 2,2%.
Si noti che tali rendimenti decrescono all'aumentare del periodo di investimento, pertanto, su un periodo di circa 40 anni (periodo di contribuzione di una pensione, in genere),dovrebbero risultare leggermente più bassi.
Attraverso altre fonti, diverse, relative anche a sistemi previdenziali privati, di altri paesi, trovo conferma a rendimenti medi attorno al 4-5%.

Si può quindi concludere che diverse gestioni delle pensioni retributive, sembrano aver avuto rendimenti ben superiori a quelli 'di mercato'; altri invece, rendimenti piuttosto simili.

----------------

CONCLUSIONI

I sofismi citati all'inizio ci sembrano quindi privi di qualunque fondamento: è certo che i pensionati retributivi percepiscono "soltanto quello che prevede la legge", ma questo non garantisce che la legge sia giusta. Del resto, per avere questi 'regali' gli attuali pensionati non sono certo stati 'alla finestra': hanno votato i partiti che promettevano loro proprio questi regali, senza preoccuparsi delle future conseguenze, e molti hanno difeso, anche attivamente, persino nelle piazze, qualunque ipotesi di cambiamento.

Se le condizioni sono così generose (per alcuni) e questo reca grave danno agli attuali contribuenti (e ad alcuni più che ad altri), il sistema andrebbe corretto.
Anzi, il sistema andava corretto già negli anni '90, quando si è deciso invece di salvare tutti i privilegi retributivi, scaricando gli interi costi delle riforme pensionistiche sui futuri pensionati, ovvero sulle generazioni future.


Perché si sia agito in questo modo, perché ancora oggi non si riesca a fare nulla per correggere queste ingiustizie, è quello che proviamo a spiegare in questo blog fin dall'inizio:
è materia di criminalità politica.

mercoledì 3 maggio 2017

I sindacati sono il problema, non la soluzione

Visto che si è appena conclusa la festa dei sindacati (nessuno può veramente pensare che il vero festeggiato del primo maggio sia il 'lavoro'), vogliamo tornare su questo argomento, già affrontato brevemente in precedenza con questi articoli: bassi salari e sindacati e abolire i sindacati, e ribadire la nostra tesi: il nostro mercato del lavoro ha numerosi e gravi problemi, come li ha il nostro sistema produttivo e la nostra economia in generale, e non soltanto negli ultimi anni.
Riteniamo che tutti questi problemi derivino da una causa fondamentale (non l'unica ovviamente): i SINDACATI; e intendiamo gli attuali sindacati dei lavoratori ma anche quelli delle imprese, le associazioni di categoria.
E' il sistema di rappresentanza e di contrattazione che opera in Italia a causare tutto questo, e a impedire molto spesso che si trovino soluzioni adeguate a questi problemi.
Per cui, per poter risolvere questi problemi, occorre cambiare il sistema sindacale.

ABOLIRE I SINDACATI
, ripetiamo.

E usiamo questa espressione senza timore.
Nessuno ci può accusare di voler vietare e impedire la libertà di associazione sindacale; tutt'altro: vogliamo difenderla e rafforzarla, proprio combattendo i sindacati che la impediscono e la ostacolano.
Nessuno ci può accusare di essere contro i sindacati, contro la rappresentanza degli interessi dei lavoratori: ma vogliamo una rappresentanza vera, che parta dai dipendenti, dalle loro libere scelte, e non imposta da un sindacato-partito che opera solo secondo logiche politiche, spesso in contrasto con i veri interessi di chi lavora.

Partiamo quindi dai problemi, attuali, e del recente passato, potremo vederne solo alcuni e superficialmente. In futuro, torneremo sui diversi temi.

le retribuzioni

Recentemente l'Ocde ha aggiornato al 2016 i dati sulle retribuzioni da lavoro dipendente.
(in questi grafici le retribuzioni sono tutte in dollari USA PPP, ovvero a parità di potere d'acquisto, per consentire un confronto tra i vari paesi, per rappresentare il vero potere d'acquisto di questi salari, al di là dei valori nominali e delle diverse valute usate)



Nel 2016 la retribuzione (lorda) media in Italia è stata di 42.166 dollari (corrispondenti a 30.642 euro), poco più bassa della retribuzione media dei paesi Oecd (43.015 dollari).
Le retribuzioni lorde, tuttavia, non ci forniscono una informazione completa e corretta, perché non indicano come queste retribuzioni sono tassate (contributi e tasse a carico dei dipendenti);
meglio vedere quindi le retribuzioni nette (dopo i contributi e le tasse).
Queste però, in quasi tutti i paesi, dipendono dalle caratteristiche del contribuente (numerosità famigliare, carichi famigliari, etc..).
[purtroppo questi dati non possono riportare come incidono anche componenti quali deduzioni, detrazioni, etc.. applicate a livello individuale, per specifici fattori]
Verifichiamo quindi le retribuzioni nette 2016 per alcuni contribuenti "tipo":



La retribuzione netta in Italia, di una persona sola, con una retribuzione lorda pari alla media nazionale (che abbiamo visto essere di 30.642 euro, o 42,166 dollari PPP), nel 2016, è stata di 29.045.
La media Ocse era invece di 31.600 dollari, 2.600 dollari più alta che in Italia.
In Spagna è stata di quasi 31.700 dollari, + 2.600 rispetto all'Italia.
In Francia è stata di 33.900 dollari, quasi 5 mila dollari superiore a quella italiana;
in Germania + 8.200 dollari (37.300 dollari);
negli Stati Uniti di quasi 10 mila dollari superiore all'Italia (38.900 dollari);
nel Regno Unito quasi 12 mila euro più alta (40.646 dollari)
in Svizzera +29.200 dollari (58.300 dollari).

A questo risultato si giunge a causa di un cuneo fiscale totale (percentuale di contribuzione/tassazione sul costo del lavoro totale) del 47,8%, dove la media Oecd è del 36%.



Vediamo il caso di una coppia con due figli, ma con un solo reddito (pari alla retribuzione media)



La retribuzione netta media per questo tipo di contribuente è stata di 34.122 dollari PPP.
36.643 dollari invece la media Oecd.
Queste le differenze negli altri paesi, rispetto all'Italia: + 500 dollari in Spagna (34.610), + 5.000 dollari in Francia (39.173), quasi 10 mila dollari in più nel Regno Unito (43.565) + 11.000 dollari in USA (45.133), + 14.500 in Germania (48.603), + 33.500 in Svizzera (67.688).

Altro tipo: una coppia con due figli, e due redditi, uno pari al 100% della retribuzione lorda media, l'altro pari al 67% di questa retribuzione.



Questi i valori del cuneo fiscale per questa categoria di contribuenti




Come si può vedere, le retribuzioni in Italia sono molto basse.
Da cosa dipende questo risultato?
Come già spiegato in altro articolo:
1) dalla produttività delle imprese, e del sistema economico del paese.
2) dal potere contrattuale dei dipendenti, che 'ripartisce' ai dipendenti una quota più o meno alta di questa produttività.
3) dalla tassazione applicata alle retribuzioni (cuneo fiscale) e da come il peso si ripartisce tra dipendenti e imprese (quindi, conseguenza sempre del potere contrattuale del dipendente).


In tutti questi fattori, i sindacati hanno un ruolo più o meno forte, diretto o indiretto:
hanno un ruolo fondamentale e diretto nell'assicurare un certo potere contrattuale ai lavoratori
hanno un ruolo indiretto, ma altrettanto forte, visto il ruolo che giocano a livello 'politico', anche nella definizione del livello di tassazione (specie della tassazione sul lavoro) e nel condizionamento/indirizzo dello sviluppo delle imprese e dell'economia.

E' del tutto evidente quindi che, 'grazie' ai sindacati, il potere contrattuale dei dipendenti italiani è molto basso, probabilmente anche più basso di quello che potrebbe essere, e lo è stato per molto tempo.

Il ruolo dei sindacati svolto in Italia, quindi, viste le retribuzioni ottenute, può dirsi completamente FALLIMENTARE.


Apriamo una parentesi, a conclusione di questo 'problema':
Sono in molti a sostenere (specie se appartenenti al mondo delle imprese - o all'informazione a questo legata)  che l'alto cuneo fiscale sia la causa delle basse retribuzioni nette e dell'alto costo del lavoro italiano. Di queste affermazioni, solo la prima è vera. Basta vedere i valori del costo del lavoro in rapporto al valore aggiunto, quindi alla produttività.



Questo fatto discende da un fenomeno economico molto semplice: la traslazione d'imposta; che è poi lo stesso fenomeno che fa pagare al consumatore finale una qualche tassa applicata ad un certo prodotto, e il cui pagamento dovrebbe invece gravare sul produttore/venditore.
Fino ad oggi, nonostante l'altissimo cuneo fiscale, il costo del lavoro in Italia in rapporto alla produttività è sempre stato molto più basso rispetto ad altri paesi.
Ciò significa che, sebbene circa tre quarti del peso del cuneo fiscale sia nominalmente a carico delle imprese, tale peso è scaricato sui dipendenti.
Ma, a differenza della comune traslazione d'imposta, che opera in altri casi economici grazie alle caratteristiche di domanda/offerta di un certo prodotto, questo fenomeno, che opera sulle retribuzioni, non può che derivare dalla contrattazione gestita e controllata dai sindacati.
Quindi, a loro si deve anche questo risultato.

Occupazione

Nel 2016, in media in Italia, gli occupati (nella fascia 15-64 anni) sono stati 22 milioni e 240 mila, su un totale di 38 milioni e 870 mila, solo il 57,2% quindi è risultato occupato.
Ancora peggio va se si considerano solo gli italiani: 19 milioni e 860 mila occupati, contro 34 milioni e 870 mila, il 57%.
I disoccupati 'ufficiali' sono stati 3 milioni, ma quelli totali, includendo anche la 'zona grigia dell'inattività' (una categoria considerata da istat da qualche tempo che include gli inattivi che però sarebbero disposti a lavorare), arrivano a 6 milioni e mezzo. 2 milioni e mezzo i disoccupati tra gli italiani, 5 milioni e 700 mila quelli totali.

Questi disoccupati danno un tasso di disoccupazione ufficiale del 12%, che sale al 22,6% considerando i disoccupati totali. 11,4% e 22,3% rispettivamente considerando gli italiani.
Il tasso di disoccupazione sale al 22,5% (ufficiale) e 35,7% (totale) se si considera la fascia tra i 15 e 34 anni (22,9 e 36,4 per i soli italiani). 37,8% (ufficiale) e 53,8% (totale) nella fascia più giovane dei 15-24 anni. 37,8% e 54,2% per i soli italiani.

E va detto che questo dato dei disoccupati 'totali' non considera nemmeno chi risulta occupato, ma non lavora, o è sottoccupato, come chi si trova in cassa integrazione, o chi risulta lavoratore autonomo, o imprenditore individuale, ma raggiunge redditi bassissimi o nulli o talvolta negativi (e le statistiche dicono che sono tantissimi).

Facciamo qualche confronto con gli altri paesi; potendo usare purtroppo solo i dati 'ufficiali' che - come visto - sottostimano molte componenti di disoccupazione.





Questa non è nemmeno la situazione soltanto attuale, determinata dalla lunga e profonda crisi economica: anche i dati storici confermano queste problematiche dell'occupazione/disoccupazione italiana.





Ancora più preoccupante la situazione dei disoccupati di lunga durata, ovvero delle persone che restano disoccupati per un periodo superiore ad un anno.
In Italia questa categoria rappresenta quasi il 60% dei disoccupati.



E anche questo rappresenta un problema cronico del nostro mercato del lavoro


E' ovvio che la disoccupazione in un certo paese, seppur magari elevata, sarà comunque più 'tollerabile' per i singoli: vorrà dire che coinvolge più persone, ma con effetti meno gravi per ognuno di essi, e con una probabilità più alta di ritrovare presto lavoro.

I dati purtroppo non dicono se e quando questi disoccupati riescano effettivamente a rientrare nel mondo del lavoro, ma è ovvio che molto spesso, più tempo si passa in disoccupazione, più si riducono le probabilità di trovare un altro impiego.
Anche perché, molti di questi, diventano 'lavoratori scoraggiati', che, pur disponibili a lavorare, praticamente non cercano più lavoro.
Questa categoria, sempre attraverso i dati Oecd, rappresenta un ulteriore 5% sulla forza lavoro.


Tale percentuale raggiunge il livello più elevato tra i paesi Oecd per la fascia di età tra i 25-54 anni, 4,8% contro una media Oecd del 1,4%; segno che i lavoratori 'più anziani' in Italia perdono presto la speranza di ritrovare un nuovo lavoro, e smettono praticamente di cercarlo.




Per i problemi relativi all'occupazione i sindacati hanno ovviamente responsabilità solo indirette, ma non si può nemmeno pensare che non ne abbiano alcuna.

spesa e assicurazione contro la disoccupazione

Molti sono convinti che la disoccupazione non sia un problema, perché 'tanto i disoccupati vivono di sussidi'. E anzi, c'è chi pensa che proprio questi 'sussidi' incentivino la disoccupazione.

In Italia la spesa per disoccupazione o per politiche attive per il lavoro rappresentavano nel 2013 il 2,1% del Pil, ma questa spesa andrebbe confrontata con un tasso di disoccupazione 'ufficiale' del 12,3% (o meglio con il 22-23% totale). Qualche confronto con gli altri paesi (indichiamo solo i paesi principali).


La spesa cresce ovviamente con il tasso di disoccupazione, ma non per tutti i paesi in maniera omogenea: vi sono diversi paesi (Belgio, Finlandia, Olanda, Irlanda, Francia, Germania, Svizzera) che in proporzionale al 'tasso di disoccupazione' spendono molto di più. Ovviamente, spendere tanto non significa spendere bene, ma è importante capire se questi strumenti 'incentivino' la disoccupazione oppure se risultino efficaci per combatterla.

Due altri indici, pubblicati da Oecd nelle indagini relative alla Job Quality, riguardano più direttamente il 'rischio di disoccupazione' e la 'assicurazione contro la disoccupazione'.
Il primo considera sia la probabilità di diventare disoccupato, sia la durata media del periodo di disoccupazione.
Il secondo indice rappresenta il 'tasso di copertura contro la disoccupazione' e considera i tassi di sostituzione delle prestazioni.



In Italia il 'rischio di disoccupazione' è molto alto, inferiore solo a Grecia, Spagna e Portogallo, mentre la copertura contro la disoccupazione è bassa.
Per un'analisi anche più efficace, confrontiamo i due indici per i vari paesi (2013).


Si può pensare che alti tassi di disoccupazione richiedano risorse che molti paesi non possiedono, e quindi tali strumenti risultino spesso inefficaci, ma il confronto lascia supporre una relazione inversa tra questi due fenomeni. E l'Italia è uno dei paesi con le minor copertura 'assicurative' a fronte di un alto rischio di disoccupazione.

Formazione

Nessun paese può pensare di crescere, di creare ricchezza e benessere senza istruzione, formazione e cultura.

Riguardo a questo argomento, facciamo subito notare che, mentre l'Italia è nelle prime posizioni mondiali per spesa per pensioni, e nelle ultime riguardo alla spesa per istruzione.





Sicuramente, lo ripetiamo, spendere di più non significa direttamente spendere bene, ma questo dato è sicuramente segno che questo paese di vecchi e per vecchi, non vuole nemmeno concedere ai giovani le giuste risorse per formarsi un futuro migliore.

E quali sono i risultati?

Eurostat ha appena diffuso alcuni dati sulla presenza di laureati nei vari paesi europei.
L'Italia, ad eccezione della Romania, è quello che registra la quota più bassa di laureati nella fascia (che indica quindi i laureati recenti)


"Ma perché laurearsi?, diranno molti, "se il mercato del lavoro italiano ricerca pochi laureati, e vengono pagati molto meno rispetto ai loro colleghi esteri": al massimo molto meglio laurearsi... e poi scappare. Questa bassa percentuale, quindi, nasce anche da questo: anche chi decide di laurearsi, poi non resta in Italia.

I problemi della formazione italiana non si fermano certo solo al numero di laureati; per ora ci fermiamo qui. Ci sarà occasione per parlarne meglio.

le pensioni

E' inutile ripetere le molte cose già dette sulle pensioni, basterà leggere i molti articoli già scritti; qui vogliamo ribadire che l'alta spesa pensionistica ha sicuramente effetti diretti e indirette sul mercato del lavoro.
Prima di tutto, all'alta spesa corrispondono le altissime aliquote contributive, e le altissime tasse utilizzate per finanziarla; i bassi livelli retributivi visti all'inizio derivano quindi da lì.
E in tutto questo i sindacati hanno avuto un ruolo fondamentale.
Agli inizi degli anni '90 era ormai chiaro che il sistema pensionistico non poteva reggere, era evidente che andava riformato, ma i sindacati hanno rappresentato la forza più conservatrice nel processo di cambiamento.
Il risultato è che il costo delle varie riforme pensionistiche è stato scaricato tutto sulle spalle delle nuove generazione, e poco e nulla è stato toccato dei privilegi delle pensioni del passato (e del presente).
Anche gli strumenti utilizzati anche per contenere la spesa pensionistica nel breve periodo hanno anche avuto effetti significativi sul mercato del lavoro.
Si è puntato quasi esclusivamente sull'innalzamento dell'età pensionabile, e questo, in un contesto di scarsa crescita, prima, e di crisi, poi, ha tenuto fuori dal mondo del lavoro sempre più giovani.



Va rilevato che questa situazione non comporta grossi problemi solo nel presente, ma anche nel futuro; dato l'attuale sistema contributivo, questi 'buchi' contributivi di chi resta disoccupato produrranno pensioni future molto più basse. L'Oecd calcola che un 'buco' di 5 anni, determinerà una riduzione del 10% rispetto a quella di una carriera 'piena'.




-----------------

Ecco, questi sono solo alcuni brevi aspetti del problema: si potrebbe continuare a lungo, approfondendo ognuno di questi temi, o parlando anche di produttività, costo del lavoro, di struttura produttiva, etc...

Il FATTO è che i sindacati hanno un ruolo fondamentale o importante in ognuna di queste problematiche. Non si può quindi pensare di risolverle senza cambiare, e radicalmente,  il sistema sindacale.

E per cambiarlo bisogna restituire ai lavoratori, che sono i diretti titolari dei diritti di rappresentanza e contrattazione la piena disponibilità di questi diritti, affinché possano scegliere veramente chi possa rappresentarli al meglio.

Occorre liberalizzare il settore sindacale, creando un vero pluralismo, una vera concorrenza, aprendo a soggetti professionali e capaci, che possano magari integrare il potere di rappresentanza con l'utile servizio della ricerca di lavoro.

Occorrono sindacati che aiutino i lavoratori a trovare il lavoro migliore, non sindacati che lo aiutino a tenersi il posto di lavoro peggiore.

Occorre più libertà per i lavoratori, contro l'incapacità degli attuali sindacati a rappresentare i loro interessi.