domenica 2 luglio 2017

Ci salveranno gli stranieri?

Negli ultimi giorni si discute molto di stranieri e immigrazione, per via del progetto di legge dello Ius Soli, ma anche per i numerosi sbarchi delle ultime ore. Non parleremo di Ius Soli in questa lettera, e nemmeno degli sbarchi, ma vogliamo cogliere questa occasione per tornare nuovamente sul tema 'stranieri'.
Come annunciato recentemente qui infatti, nei prossimi articoli ci occuperemo delle 'teorie' più diffuse circa le cause della 'crisi' italiana e le possibili soluzioni.
Tra queste possibili 'soluzioni' rientra senza dubbio l' immigrazione.
E' opinione molto diffusa infatti (tra politici, economisti, giornalisti, italiani e non, ma ormai anche in buona parte della popolazione) che l'Italia, per risolvere i propri problemi demografici, ma anche economici, nei prossimi decenni, dovrà necessariamente fare sempre più affidamento sugli stranieri.

Il problema demografico




Nel grafico qui sopra possiamo vedere l'andamento storico della popolazione residente in Italia, insieme alle previsioni demografiche (stimate da DemoIstat fino a qualche anno fa) per i prossimi decenni.

[NOTA: Recentemente sono uscite previsioni più aggiornate, ma che purtroppo non consentono, come nel passato, di separare la componente italiana da quella straniera. Abbiamo anche chiesto ad Istat il motivo di questo fatto, e ci ha così risposto:
"differentemente dal passato le nuove previsioni demografiche non contemplano la variabile cittadinanza. Ciò per scelta metodologica ma anche per il modificato contesto nazionale, in relazione alle difficoltà di identificare (nonchè di dedurne i comportamenti demografici futuri) la comunità residente immigrata sulla base del solo criterio di cittadinanza."]

Come si può notare, la popolazione italiana ha smesso di crescere già negli anni '80, con un lento declino successivo; a partire dalla crisi, tale declino è diventato ben più rapido (anche per la 'fuga' di un sempre maggior numero di italiani verso l'estero).
Negli ultimi 15-20 anni tale riduzione è stata compensata, e lo sarà sempre più, dall'arrivo di stranieri: negli anni '90 la componente straniera in Italia copriva percentuali minime, poi è andata crescendo, con una forte accelerazione negli anni 2000.



Negli ultimi 10-15 anni, sono arrivati in Italia, in media, circa 300 mila stranieri ogni anno.


A inizio 2017 (al netto di chi nel frattempo ha acquisito la cittadinanza italiana, fenomeno molto cresciuto negli ultimi anni) gli stranieri residenti in Italia avevano raggiunto la cifra di 5.047.028. I residenti nati all'estero arrivano a quasi 6 milioni e mezzo.
Per contro, la stampa ci informa che sono oltre 500 mila gli italiani che, dal 2008 ad oggi, hanno scelto di trasferirsi all'estero.
Il problema demografico italiano, quindi, si è ulteriormente aggravato negli ultimi anni per l'aumento delle partenze italiane.

Ma a cosa si deve la crisi demografica italiana? E perché non si riesce a risolverla?
Inutile addentrarci ora in una questione così complessa, ora; accontentiamoci di dire che vi sono svariate ragioni: culturali, economiche, sociali.
Quello che vogliamo sottolineare è invece un fenomeno che raramente viene associato al problema demografica: le interruzioni di gravidanza.
Il tema è sempre fonte di mille polemiche e discussioni, e forse proprio per questo si preferisce escluderlo da questo tema. Ma non bisogna avere alcun timore delle polemiche, quando si cercano solo i fatti e la verità.

Gli aborti in Italia

Riguardo alle interruzioni di gravidanza vi sono, ovviamente, posizioni contrastanti. Talvolta si sente anche dire che "comunque il fenomeno è molto ridotto, gli aborti sono pochi": aldilà delle opinioni personali, questa è sicuramente una affermazione che non può essere accolta.

Cosa dicono infatti i numeri ufficiali?
Dicono che nei primi anni '80, subito dopo la legge sull'aborto, si registravano 200 mila - 230 mila aborti l'anno. Poi le interruzioni di gravidanza sono scese ai circa 100 mila attuali, seguendo per altro lo stesso andamento di nascite, matrimoni, etc.
100 mila aborti, o anche 200 mila possono sembrare pochi in confronto ai 27 milioni di donne (sopra i 14 anni) presenti in Italia (è questo un confronto spesso usato riguardo a questo fenomeno); ma gli aborti andrebbero più correttamente confrontati col numero di concepimenti, o con i nuovi nati.




Con questo confronto si trova che nei primi anni '80 la percentuale di aborti sui concepiti era tra il 25 e il 28%. Quella sui nati, tra il 33 e il 39%.


Ciò vuol dire, per usare numeri ancora più semplici, che ogni 4 concepiti, uno e più veniva abortito; per 3 bambini nati, un altro non nasceva perché abortito.
Oggi quelle percentuali sono scese al 16% sui concepiti (circa 1 su 5), e al 20% dei nati (uno su 5).

Ma nel complesso? vediamo anche i dati cumulati.



Dal 1980 al 2014 sono nati (vivi) 19,4 milioni di individui in Italia.
5,7 milioni sono stati invece gli aborti complessivi, i "non nati".
(Una cifra simile agli stranieri oggi presenti in Italia, quelli "assolutamente indispensabili alla nostra economia perché non facciamo più figli").
Sui valori cumulati la % di aborti sui concepiti arriva al 21,3%, sui nati al 27,2%.
Nel complesso quindi, dal 1980 al 2014, all'incirca, ogni cinque concepiti uno è stato abortito (4,7 per essere precisi), per ogni quattro nati un altro bambino non è nato (3,7 per la precisione).
Quasi 6 milioni di italiani "non nati", quindi, che si traducono in un numero proporzionale di 'non matrimoni', e ulteriori 'mancati concepimenti' e 'mancate nascite'.
Questi i numeri, reali. Se a voi sembrano pochi...

La crisi demografica, quindi, si deve anche a questo nuovo costume sociale moderno. Ovviamente non solo italiano.

Quale aiuto alle famiglie

Per il calo demografico italiano si indicano però molto spesso anche cause economiche.
Anche se ovviamente non possono spiegare interamente il fenomeno.

L'alta disoccupazione, o la bassa occupazione, sono problemi che in Italia riguardano principalmente i giovani.



Negli ultimi anni, nelle fasce più giovani, oltre al calo degli occupati in valore assoluto (per il calo demografico in queste fasce di età), ...




sono fortemente diminuiti anche i tassi di occupazione; contemporaneamente invece, alla crescita di quelli delle fasce più anziane (fenomeno senz'altro dovuto al progressivo innalzamento dell'età di pensionamento, all'interno di un mercato del lavoro stabile se non in declino).


Ma il "declino" dei più giovani, in Italia, non si limita solo alla maggiore disoccupazione (minore occupazione), e non ha inizio solo con la 'crisi'. E' un fenomeno "di lunga data", basta vedere ai dati relativi ai redditi e alla ricchezza per fasce di età.


Negli ultimi 40 anni sono cresciuti enormemente i redditi (reali) degli individui più anziani (segno di un sistema pensionistico sempre più generoso), e ormai i redditi di questa fascia di popolazione ha raggiunto quelli medi della popolazione più giovane.


I redditi medi (reali) delle famiglie più giovani sono invece diminuiti costantemente, e dalla fine degli anni '90; poco prima della crisi hanno iniziato a diminuire anche quelli degli adulti.

Anche la ricchezza, ha seguito gli stessi andamenti.





Ma quali sono le politiche pubbliche per aiutare le famiglie, soprattutto quelle più giovani?
Come abbiamo già visto molte volte nei precedenti articoli, a fronte della spesa pensionistica più alta al mondo, la spesa sociale 'non pensionistica' in Italia è tra le più basse, rispetto a quella di altri paesi.




Più nel dettaglio, l'Italia riserva una percentuale molto bassa della spesa pubblica alle famiglie (non anziane), molto più bassa della media Oecd e di molti paesi.


Una differenza ancora più evidente riguarda la spesa destinata a combattere l'esclusione sociale.



Non vogliamo certo sostenere che "lo stato fa troppo poco"; piuttosto, fa anche troppo, perché è la causa principale di questa situazione. Ma è evidente che ben poche risorse sono destinate alle famiglie e a combattere la povertà.

L'Italia, è sempre più un paese per vecchi.

La povertà tra i giovani

Il risultato di questa situazione è che le fasce più giovani sono anche le più soggette al rischio povertà.

Nel 2015, secondo Istat, il 10,2% delle famiglie più giovani (con capofamiglia tra i 18 e i 34 anni) era in condizione di povertà assoluta, e il 12,8% in povertà relativa, contro il 4% delle famiglie più anziane (con capofamiglia con 65 anni e più) in povertà assoluta e l'8% 'relativamente' povere.


Guardando agli individui: il 10,9 % delle persone fino 17 anni era povero in senso assoluto, e il 20,2 in senso relativo; tra i 18 e i 34 anni le percentuali diventano 9,9% di poveri assoluti, e 16,6 di poveri 'relativi'; contro il 4,1% di poveri assoluti degli over 65,e l' 8,6% di poveri relativi.



Questa situazione è senz'altro causata dalle attuali condizioni economiche, ma in parte anche dalla stessa redistribuzione statale.
Lo dimostrano le recenti statistiche pubblicate da Istat appunto sulla  Redistribuzione del reddito in Italia.

La redistribuzione del reddito

Ovviamente, gran parte della redistribuzione statale, opera attraverso le pensioni:
gli anziani, infatti, non disponendo più di un reddito da lavoro, se non avessero una pensione, si troverebbero in larga parte in condizioni di povertà.
Il dato interessante evidenziato da Istat è che per rendere "meno poveri" alcune persone (ma anche per rendere 'più ricchi' i 'già ricchi'), lo stato rende 'più poveri' molte altre persone più giovani.





Il rischio di povertà per gli individui fino a 14 anni, dopo l'intervento redistributivo statale, passa dal 20,4 al 25,1%; dal 19,7 al 25,3% per i giovani tra 15-24 anni, dal 17,9 al 20,2% per i giovani tra 25-34 anni (e un peggioramento quasi identico si ha anche per la fascia tra 35-44 anni).
Con qualche semplice conto si trova che la redistribuzione statale porta oltre un milione di individui ad essere a rischio di povertà.

Un'altra tabella interessante pubblicata da Istat è quella che mostra l'incidenza dei vari prelievi per classe di reddito.


Se si sommano le varie componenti si trova che, tra contributi, irpef, e altro, gli individui più poveri, della prima fascia, hanno un prelievo del 22,7% sul reddito lordo famigliare (una percentuale altissima, considerata la fascia), quelli della seconda fascia arrivano al 25,2%, in terza al 28,3, in quarta al 32,3, in quinta fascia al 35,6%.

Le varie percentuali mostrano ovviamente un andamento progressivo, dato dall'incidenza dell'irpef; ma evidenziano soprattutto il prelievo molto elevato anche per le famiglie e per gli individui più poveri, e questo soprattutto per l'elevato prelievo contributivo, quello che serve appunto per pagare le pensioni.

E' del tutto ovvio, quindi, che fatte tutte queste considerazioni, i risultati, in termini demografici, sono poi questi:






Fatte tutte queste considerazioni riguardo al problema demografico, e sul costante impoverimento della popolazione più giovane, è il caso di tornare al tema centrale di questo scritto:

Ci salveranno gli stranieri?

Molti, come dicevamo, sono convinti di sì; e la questione non è esclusivamente demografica, perché si crede che "importare" stranieri possa contribuire a migliorare la crescita economica, e soprattutto, possa contribuire a finanziare meglio le spese dello stato, a partire da quella pensionistica.
Il ragionamento su cui si basa questa 'certezza' è molto semplice: "se arrivano più stranieri, ci saranno più lavoratori, quindi crescerà la produzione, i redditi, i consumi, e cresceranno anche contributi e tasse per lo stato."

E questa convinzione, sembra aver trovato recentemente conferma nei molti "bilanci" (stimati da alcuni istituti che si occupano del fenomeno immigrazione) sul contributo fornito dagli stranieri all'economia italiana e ai bilanci pubblici.

Abbiamo già avuto modo di occuparci di questo argomento; non è il caso ora di tornarci, ma vogliamo quantomeno riassumere e ricordare alcune considerazioni importanti.

I diversi 'bilanci' diffusi frequentemente dalla stampa (tra i più noti quelli costruiti da Fondazione Moressa), sono (possiamo dirlo con assoluta certezza) bilanci falsi.
Comprendiamo le finalità dei giornali e di certe fondazioni: combattere quel razzismo che si crede così radicato nella nostra società, dimostrando che gli stranieri danno più di quello che ricevono.
Comprendiamo, ma non condividiamo.

Innanzitutto, non credo affatto che la società italiana sia così razzista come molti vogliono credere; anzi, ritengo che sia tra le più accoglienti.Semplicemente quello delle persone preoccupate dai fenomeni immigratori, il più delle volte, è solo sano buon senso: vedono e vivono sulla propria pelle i problemi generati dai fenomeni migratori, e vorrebbe risolverli; il problema invece è che trovano quasi sempre dall'altra parte (da parte di molti partiti, e giornalisti, etc) solo indifferenza o aperta ostilità; in una parola, razzismo.
In qualsiasi caso, non è con la propaganda e con la diffusione di informazioni 'manipolate' che si può combattere quello che viene definito 'razzismo'.

Tornando alla convinzione che "solo gli stranieri possano salvarci", facciamo una considerazione molto semplice:

In Italia abbiamo attualmente poco più di 22 milioni di occupati, con un tasso di occupazione (nella fascia 15-65 anni) del 57,2%. Un tasso bassissimo, se si considera che la media europea è al 65,5% (la germania arriva al 74,7, la svizzera addirittura al 80,8).
Se avessimo anche soltanto il tasso di occupazione della media europea avremmo oltre 3 milioni di occupati in più, molto più degli attuali occupati stranieri.
Se riuscissimo a raggiungere i livelli occupazioni di Germania avremmo addirittura quasi 7 milioni di occupati in più, con il tasso svizzero, oltre 9 milioni di occupati in più.
In questo caso, è ovvio che i problemi economici del nostro paese, a partire dal finanziamento dell'elevata spesa pensionistica non sarebbero più problemi..
Il problema principale quindi riguarda il nostro mercato del lavoro, di certo non la mancanza di lavoratori.
Ma come si raggiunge un tasso di occupazione più alto? Come si ottiene più crescita.
Non siamo in grado di fornire una risposta, ma per la questione in oggetto, è anche inutile chiederselo: perché se non si riesce a risolvere questo dilemma, importare più lavoratori stranieri significa semplicemente che questi, al massimo, andranno a sostituire altri occupati italiani.

Ed è quello che è successo negli ultimi anni:
Dalla fine degli anni '90, fino alla crisi del 2008, la crescita dell'occupazione (vuoi una 'crescita' favorevole - ma forse non troppo 'sostenibile' - vuoi qualche riforma nel mercato del lavoro), ha riguardato tanto gli stranieri (di più) che gli italiani (meno).






Dalla crisi, le cose sono cambiate completamente:
l'occupazione degli stranieri ha continuato a crescere, mentre quella degli italiani è crollata (si è un po' ripresa solo nell'ultimo periodo, rimanendo ad un livello ben inferiore a quello pre-crisi).

La reale "sostituzione"

Riguardo a questi dati sull'occupazione è necessario fare anche un ulteriore ragionamento, per meglio comprendere i 'reali' fenomeni in atto.
Osservando la dinamica degli occupati si può senza dubbio dire che negli ultimi due anni si è finalmente invertita una tendenza, e l'occupazione è tornata a crescere.
Soprattutto, sembra essere tornata a crescere ANCHE per gli italiani.
Questo dicono i dati, ma solo in apparenza.
Da qualche anno si registra una forte accelerazione delle acquisizioni di cittadinanza. E occorre tenerne conto.




Quelli che fino ad un certo anno erano considerati stranieri, nelle statistiche, l'anno dopo sono diventati italiani a seguito dell'acquisizione della cittadinanza. Quindi spariscono dagli aggregati 'stranieri' per aumentare quelli degli 'italiani'.
E' vero che non è possibile sapere quanti di questi nuovi italiani sono occupati, ma si può ipotizzare che, appunto perché abbiano acquisito la cittadinanza italiana, e quindi in italia da lungo tempo, siano anche occupati. Ho provato quindi a stimare l'andamento della occupazione al NETTO delle acquisizioni di cittadinanza


Da questi dati 'corretti', la crescita dell'occupazione 'straniera' è ancora più netta, e si rileva che quella italiana ha continuato a diminuire anche negli ultimi anni.
La SOSTITUZIONE di lavoro italiano con lavoro straniero continua quindi, e sempre più velocemente.

E questo fenomeno ha importanti conseguenze: se gli stranieri sostituiscono semplicemente i lavoratori italiani, non vi sarà occupazione aggiuntiva, non ci saranno contributi aggiuntivi. Solo il "contributo" che avrebbero potuto dare all'economia altri lavoratori. In più, però, avremo molti più disoccupati (italiani o stranieri) con ovvie conseguenze.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Chiariamo subito una questione: quando si parla di 'sostituzione', in senso economico, non si parla certo di una azienda che licenzia l'operaio italiano per assumere un operaio straniero, non avviene così la 'sostituzione; la "sostituzione" tra occupati può avvenire per la diversa dinamica tra settori, produzioni, consumi.
Facciamo un esempio: se cresce la "domanda di badanti", vuol dire che maggiori risorse economiche sono destinate a quel "servizio/prodotto"; se l'economia non cresce almeno proporzionalmente, quelle risorse sono state trasferite da altri settori, da altri prodotti e servizi, verso quello delle badanti.
La badante straniera, considerando le dinamiche del sistema economico, può anche sostituire l'ingegnere italiano. E' più che ovvio.

Quindi si può onestamente ammettere che sì: gli stranieri possono prendere il lavoro degli italiani.
Ed è una affermazione del tutto neutra. Del resto, se si ammette senza problemi la concorrenza tra imprese, tra prodotti e servizi, perché non ammettere quella tra lavoratori stranieri e quelli italiani?
Quello che resta da capire, visto che gli occupati stranieri sembrano sostituire sempre più gli occupati italiani, è quale 'vantaggio competitivo' possiedano gli stranieri rispetto agli italiani.

E a questo proposito, è bene affrontare un'altra verità molto diffusa:

"gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare.."

Innanzitutto, visto che in economia tutto dipende dai 'prezzi', la frase andrebbe quantomeno così completata: "gli stranieri fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare... a quel prezzo".
E questo sembra essere, senza dubbio, il vantaggio competitivo degli stranieri.

E' ben ovvio che chi proviene da paesi 'poveri' sarà sempre disposto ad accettare salari più bassi di quelli chiesti da un italiano (salario di riserva.. lo chiamano gli economisti), per il semplice motivo che qualunque basso salario italiano rappresenterà quasi sempre un miglioramento rispetto alla condizione precedente.

Ma vi è un altro vantaggio economico, da considerare, e non è per niente ininfluente.

Il potere d'acquisto del risparmio straniero

Un lavoratore guadagna un certo reddito, che vale per esempio 1000, ne risparmierà una parte, e quel risparmio, accantonato, investito, potrà garantire un certo rendimento.
Ma ammettiamo che il risparmio di un certo lavoratore possa, quasi istantaneamente, garantirgli un rendimento altissimo, tanto da farlo raddoppiare, triplicare, decuplicare di valore.
Quali conseguenze ci saranno nelle scelte del lavoratore? prima di tutto, sarà portato a risparmiare una quota maggiore del proprio reddito; inoltre, sarà disposto ad accettare retribuzioni più basse, pur di lavorare e avere quindi un reddito, dato il maggior rendimento che gli garantisce il suo risparmio.

Ebbene, i lavoratori stranieri risparmiano parte dei redditi conseguiti nei paesi che li ospitano, e buona parte di questi risparmi vengono inviati nei paesi di origine tramite le cosiddette rimesse.
Ma queste rimesse, attraverso le differenze di potere d'acquisto oggi esistenti tra molti paesi, acquisteranno nei paesi d'origine un valore ben diverso, molto più alto. Come se appunto, garantissero un alto rendimento immediato.
Per esempio, un euro mandato negli USA, equivale a poco più di un dollaro americano, e non avrà che il potere di acquisto di poco più di un dollaro americano.
Ma un dollaro mandato in Honduras vale 10 volte tanto (ha un potere di acquisto di 10 volte).

Le rimesse dei lavoratori stranieri verso i paesi di origine sono state nel 2015 di circa 5,3 miliardi.

Dopo essere cresciute, di anno in anno, toccando un massimo di 7,4 miliardi nel 2011, negli ultimi anni hanno iniziato a diminuire.


Buona parte di questa dinamica è dovuta alla rimesse verso la Cina, cresciute rapidamente fino al 2012, e poi fortemente diminuite.

Proviamo quindi a prendere queste rimesse, per i diversi paesi di destinazione, e a 'rivalutarli' secondo i diversi coefficienti di parità di potere d'acquisto. Queste sono le stime.



Gli stranieri, quindi, hanno questi 'vantaggi competitivi', rispetto agli italiani; ma vale subito la pena chiedersi: è un bene che ci sia qualcuno disposto a vendere il proprio lavoro a meno? è un bene che il lavoro sia sempre così a buon mercato?

Non si direbbe, in base a quello che sostiene la "teoria economica", visto che la crescita, lo sviluppo sembrano generalmente procedere nella direzione opposta: si trovano attività sempre più produttive, a maggior valore aggiunto, ma che richiedono anche maggior capitale, anche umano, e quindi retribuzioni più alte. E tutte le attività "marginali" a bassa produttività vengono "selezionate", e molte spariscono, perché non più remunerative. Bisogna rimpiangere tanti antichi mestieri lamentandosi della crudele economia che li ha fatti sparire? Sono spariti perché ormai ANTIECONOMICI, in un mondo come il nostro che offre, per fortuna, opportunità "migliori".

L'Italia degli ultimi anni sembra essere andata in senso opposto, e questo, non perché il 'mercato' sembra funzionare in modo diverso, ma perché si è scelta una "politica industriale" o di "sviluppo" di questo tipo.
Su queste scelte, hanno pesato senza dubbio le caratteristiche del nostro sistema produttivo: fino a non molti anni fa, eravamo noi la Cina d'Europa. I 'miracoli' fatti dipendevano molto dal basso costo della nostra manodopera. Così quando sono arrivate le 'tigri asiatiche', quando è arrivata la globalizzazione le resistenze per cambiare completamente modello produttivo, per spingersi verso produzioni a maggior valore tecnologico, più avanzate sono state molte; e si è preferito cercare mille 'protezioni' al sistema in essere: senza dubbio la ricerca di manodopera a basso costo, offerta dall'arrivo di stranieri, è stato uno di questi (ma non il solo).

Quindi, no, possiamo dire - senza ombra di dubbio - che non è un bene per lo sviluppo italiano aver trovato una fonte inesauribile di manodopera a basso costo. Almeno non se non le nostre produzioni non prendono anche altre strade, più moderne.
Tutto questo non potrà che ritardare la vera modernizzazione della nostra economia.

[Non tratteremo qui di un argomento molto importante, quello della criminalità associata agli stranieri, lo faremo in futuro. ]

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In conclusione, nessuno mette in dubbio la libertà di ogni persona di spostarsi per ricercare una vita migliore, ma occorre interrogarsi adeguatamente sulle conseguenze di questi fenomeni e anche sulle cause di certi fenomeni. In particolare, quando questi fenomeni, se non 'pianificati' sono sicuramente 'incentivati' , in molti modi, dalla politica.
La forte immigrazione in Italia non sembra capace di risolvere i nostri problemi, sicuramente non senza intervenire in tanti altri problemi della nostra economia.
Si può, anzi ritenere che l'immigrazione abbia contribuito alla decrescita italiana.



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