mercoledì 3 maggio 2017

I sindacati sono il problema, non la soluzione

Visto che si è appena conclusa la festa dei sindacati (nessuno può veramente pensare che il vero festeggiato del primo maggio sia il 'lavoro'), vogliamo tornare su questo argomento, già affrontato brevemente in precedenza con questi articoli: bassi salari e sindacati e abolire i sindacati, e ribadire la nostra tesi: il nostro mercato del lavoro ha numerosi e gravi problemi, come li ha il nostro sistema produttivo e la nostra economia in generale, e non soltanto negli ultimi anni.
Riteniamo che tutti questi problemi derivino da una causa fondamentale (non l'unica ovviamente): i SINDACATI; e intendiamo gli attuali sindacati dei lavoratori ma anche quelli delle imprese, le associazioni di categoria.
E' il sistema di rappresentanza e di contrattazione che opera in Italia a causare tutto questo, e a impedire molto spesso che si trovino soluzioni adeguate a questi problemi.
Per cui, per poter risolvere questi problemi, occorre cambiare il sistema sindacale.

ABOLIRE I SINDACATI
, ripetiamo.

E usiamo questa espressione senza timore.
Nessuno ci può accusare di voler vietare e impedire la libertà di associazione sindacale; tutt'altro: vogliamo difenderla e rafforzarla, proprio combattendo i sindacati che la impediscono e la ostacolano.
Nessuno ci può accusare di essere contro i sindacati, contro la rappresentanza degli interessi dei lavoratori: ma vogliamo una rappresentanza vera, che parta dai dipendenti, dalle loro libere scelte, e non imposta da un sindacato-partito che opera solo secondo logiche politiche, spesso in contrasto con i veri interessi di chi lavora.

Partiamo quindi dai problemi, attuali, e del recente passato, potremo vederne solo alcuni e superficialmente. In futuro, torneremo sui diversi temi.

le retribuzioni

Recentemente l'Ocde ha aggiornato al 2016 i dati sulle retribuzioni da lavoro dipendente.
(in questi grafici le retribuzioni sono tutte in dollari USA PPP, ovvero a parità di potere d'acquisto, per consentire un confronto tra i vari paesi, per rappresentare il vero potere d'acquisto di questi salari, al di là dei valori nominali e delle diverse valute usate)



Nel 2016 la retribuzione (lorda) media in Italia è stata di 42.166 dollari (corrispondenti a 30.642 euro), poco più bassa della retribuzione media dei paesi Oecd (43.015 dollari).
Le retribuzioni lorde, tuttavia, non ci forniscono una informazione completa e corretta, perché non indicano come queste retribuzioni sono tassate (contributi e tasse a carico dei dipendenti);
meglio vedere quindi le retribuzioni nette (dopo i contributi e le tasse).
Queste però, in quasi tutti i paesi, dipendono dalle caratteristiche del contribuente (numerosità famigliare, carichi famigliari, etc..).
[purtroppo questi dati non possono riportare come incidono anche componenti quali deduzioni, detrazioni, etc.. applicate a livello individuale, per specifici fattori]
Verifichiamo quindi le retribuzioni nette 2016 per alcuni contribuenti "tipo":



La retribuzione netta in Italia, di una persona sola, con una retribuzione lorda pari alla media nazionale (che abbiamo visto essere di 30.642 euro, o 42,166 dollari PPP), nel 2016, è stata di 29.045.
La media Ocse era invece di 31.600 dollari, 2.600 dollari più alta che in Italia.
In Spagna è stata di quasi 31.700 dollari, + 2.600 rispetto all'Italia.
In Francia è stata di 33.900 dollari, quasi 5 mila dollari superiore a quella italiana;
in Germania + 8.200 dollari (37.300 dollari);
negli Stati Uniti di quasi 10 mila dollari superiore all'Italia (38.900 dollari);
nel Regno Unito quasi 12 mila euro più alta (40.646 dollari)
in Svizzera +29.200 dollari (58.300 dollari).

A questo risultato si giunge a causa di un cuneo fiscale totale (percentuale di contribuzione/tassazione sul costo del lavoro totale) del 47,8%, dove la media Oecd è del 36%.



Vediamo il caso di una coppia con due figli, ma con un solo reddito (pari alla retribuzione media)



La retribuzione netta media per questo tipo di contribuente è stata di 34.122 dollari PPP.
36.643 dollari invece la media Oecd.
Queste le differenze negli altri paesi, rispetto all'Italia: + 500 dollari in Spagna (34.610), + 5.000 dollari in Francia (39.173), quasi 10 mila dollari in più nel Regno Unito (43.565) + 11.000 dollari in USA (45.133), + 14.500 in Germania (48.603), + 33.500 in Svizzera (67.688).

Altro tipo: una coppia con due figli, e due redditi, uno pari al 100% della retribuzione lorda media, l'altro pari al 67% di questa retribuzione.



Questi i valori del cuneo fiscale per questa categoria di contribuenti




Come si può vedere, le retribuzioni in Italia sono molto basse.
Da cosa dipende questo risultato?
Come già spiegato in altro articolo:
1) dalla produttività delle imprese, e del sistema economico del paese.
2) dal potere contrattuale dei dipendenti, che 'ripartisce' ai dipendenti una quota più o meno alta di questa produttività.
3) dalla tassazione applicata alle retribuzioni (cuneo fiscale) e da come il peso si ripartisce tra dipendenti e imprese (quindi, conseguenza sempre del potere contrattuale del dipendente).


In tutti questi fattori, i sindacati hanno un ruolo più o meno forte, diretto o indiretto:
hanno un ruolo fondamentale e diretto nell'assicurare un certo potere contrattuale ai lavoratori
hanno un ruolo indiretto, ma altrettanto forte, visto il ruolo che giocano a livello 'politico', anche nella definizione del livello di tassazione (specie della tassazione sul lavoro) e nel condizionamento/indirizzo dello sviluppo delle imprese e dell'economia.

E' del tutto evidente quindi che, 'grazie' ai sindacati, il potere contrattuale dei dipendenti italiani è molto basso, probabilmente anche più basso di quello che potrebbe essere, e lo è stato per molto tempo.

Il ruolo dei sindacati svolto in Italia, quindi, viste le retribuzioni ottenute, può dirsi completamente FALLIMENTARE.


Apriamo una parentesi, a conclusione di questo 'problema':
Sono in molti a sostenere (specie se appartenenti al mondo delle imprese - o all'informazione a questo legata)  che l'alto cuneo fiscale sia la causa delle basse retribuzioni nette e dell'alto costo del lavoro italiano. Di queste affermazioni, solo la prima è vera. Basta vedere i valori del costo del lavoro in rapporto al valore aggiunto, quindi alla produttività.



Questo fatto discende da un fenomeno economico molto semplice: la traslazione d'imposta; che è poi lo stesso fenomeno che fa pagare al consumatore finale una qualche tassa applicata ad un certo prodotto, e il cui pagamento dovrebbe invece gravare sul produttore/venditore.
Fino ad oggi, nonostante l'altissimo cuneo fiscale, il costo del lavoro in Italia in rapporto alla produttività è sempre stato molto più basso rispetto ad altri paesi.
Ciò significa che, sebbene circa tre quarti del peso del cuneo fiscale sia nominalmente a carico delle imprese, tale peso è scaricato sui dipendenti.
Ma, a differenza della comune traslazione d'imposta, che opera in altri casi economici grazie alle caratteristiche di domanda/offerta di un certo prodotto, questo fenomeno, che opera sulle retribuzioni, non può che derivare dalla contrattazione gestita e controllata dai sindacati.
Quindi, a loro si deve anche questo risultato.

Occupazione

Nel 2016, in media in Italia, gli occupati (nella fascia 15-64 anni) sono stati 22 milioni e 240 mila, su un totale di 38 milioni e 870 mila, solo il 57,2% quindi è risultato occupato.
Ancora peggio va se si considerano solo gli italiani: 19 milioni e 860 mila occupati, contro 34 milioni e 870 mila, il 57%.
I disoccupati 'ufficiali' sono stati 3 milioni, ma quelli totali, includendo anche la 'zona grigia dell'inattività' (una categoria considerata da istat da qualche tempo che include gli inattivi che però sarebbero disposti a lavorare), arrivano a 6 milioni e mezzo. 2 milioni e mezzo i disoccupati tra gli italiani, 5 milioni e 700 mila quelli totali.

Questi disoccupati danno un tasso di disoccupazione ufficiale del 12%, che sale al 22,6% considerando i disoccupati totali. 11,4% e 22,3% rispettivamente considerando gli italiani.
Il tasso di disoccupazione sale al 22,5% (ufficiale) e 35,7% (totale) se si considera la fascia tra i 15 e 34 anni (22,9 e 36,4 per i soli italiani). 37,8% (ufficiale) e 53,8% (totale) nella fascia più giovane dei 15-24 anni. 37,8% e 54,2% per i soli italiani.

E va detto che questo dato dei disoccupati 'totali' non considera nemmeno chi risulta occupato, ma non lavora, o è sottoccupato, come chi si trova in cassa integrazione, o chi risulta lavoratore autonomo, o imprenditore individuale, ma raggiunge redditi bassissimi o nulli o talvolta negativi (e le statistiche dicono che sono tantissimi).

Facciamo qualche confronto con gli altri paesi; potendo usare purtroppo solo i dati 'ufficiali' che - come visto - sottostimano molte componenti di disoccupazione.





Questa non è nemmeno la situazione soltanto attuale, determinata dalla lunga e profonda crisi economica: anche i dati storici confermano queste problematiche dell'occupazione/disoccupazione italiana.





Ancora più preoccupante la situazione dei disoccupati di lunga durata, ovvero delle persone che restano disoccupati per un periodo superiore ad un anno.
In Italia questa categoria rappresenta quasi il 60% dei disoccupati.



E anche questo rappresenta un problema cronico del nostro mercato del lavoro


E' ovvio che la disoccupazione in un certo paese, seppur magari elevata, sarà comunque più 'tollerabile' per i singoli: vorrà dire che coinvolge più persone, ma con effetti meno gravi per ognuno di essi, e con una probabilità più alta di ritrovare presto lavoro.

I dati purtroppo non dicono se e quando questi disoccupati riescano effettivamente a rientrare nel mondo del lavoro, ma è ovvio che molto spesso, più tempo si passa in disoccupazione, più si riducono le probabilità di trovare un altro impiego.
Anche perché, molti di questi, diventano 'lavoratori scoraggiati', che, pur disponibili a lavorare, praticamente non cercano più lavoro.
Questa categoria, sempre attraverso i dati Oecd, rappresenta un ulteriore 5% sulla forza lavoro.


Tale percentuale raggiunge il livello più elevato tra i paesi Oecd per la fascia di età tra i 25-54 anni, 4,8% contro una media Oecd del 1,4%; segno che i lavoratori 'più anziani' in Italia perdono presto la speranza di ritrovare un nuovo lavoro, e smettono praticamente di cercarlo.




Per i problemi relativi all'occupazione i sindacati hanno ovviamente responsabilità solo indirette, ma non si può nemmeno pensare che non ne abbiano alcuna.

spesa e assicurazione contro la disoccupazione

Molti sono convinti che la disoccupazione non sia un problema, perché 'tanto i disoccupati vivono di sussidi'. E anzi, c'è chi pensa che proprio questi 'sussidi' incentivino la disoccupazione.

In Italia la spesa per disoccupazione o per politiche attive per il lavoro rappresentavano nel 2013 il 2,1% del Pil, ma questa spesa andrebbe confrontata con un tasso di disoccupazione 'ufficiale' del 12,3% (o meglio con il 22-23% totale). Qualche confronto con gli altri paesi (indichiamo solo i paesi principali).


La spesa cresce ovviamente con il tasso di disoccupazione, ma non per tutti i paesi in maniera omogenea: vi sono diversi paesi (Belgio, Finlandia, Olanda, Irlanda, Francia, Germania, Svizzera) che in proporzionale al 'tasso di disoccupazione' spendono molto di più. Ovviamente, spendere tanto non significa spendere bene, ma è importante capire se questi strumenti 'incentivino' la disoccupazione oppure se risultino efficaci per combatterla.

Due altri indici, pubblicati da Oecd nelle indagini relative alla Job Quality, riguardano più direttamente il 'rischio di disoccupazione' e la 'assicurazione contro la disoccupazione'.
Il primo considera sia la probabilità di diventare disoccupato, sia la durata media del periodo di disoccupazione.
Il secondo indice rappresenta il 'tasso di copertura contro la disoccupazione' e considera i tassi di sostituzione delle prestazioni.



In Italia il 'rischio di disoccupazione' è molto alto, inferiore solo a Grecia, Spagna e Portogallo, mentre la copertura contro la disoccupazione è bassa.
Per un'analisi anche più efficace, confrontiamo i due indici per i vari paesi (2013).


Si può pensare che alti tassi di disoccupazione richiedano risorse che molti paesi non possiedono, e quindi tali strumenti risultino spesso inefficaci, ma il confronto lascia supporre una relazione inversa tra questi due fenomeni. E l'Italia è uno dei paesi con le minor copertura 'assicurative' a fronte di un alto rischio di disoccupazione.

Formazione

Nessun paese può pensare di crescere, di creare ricchezza e benessere senza istruzione, formazione e cultura.

Riguardo a questo argomento, facciamo subito notare che, mentre l'Italia è nelle prime posizioni mondiali per spesa per pensioni, e nelle ultime riguardo alla spesa per istruzione.





Sicuramente, lo ripetiamo, spendere di più non significa direttamente spendere bene, ma questo dato è sicuramente segno che questo paese di vecchi e per vecchi, non vuole nemmeno concedere ai giovani le giuste risorse per formarsi un futuro migliore.

E quali sono i risultati?

Eurostat ha appena diffuso alcuni dati sulla presenza di laureati nei vari paesi europei.
L'Italia, ad eccezione della Romania, è quello che registra la quota più bassa di laureati nella fascia (che indica quindi i laureati recenti)


"Ma perché laurearsi?, diranno molti, "se il mercato del lavoro italiano ricerca pochi laureati, e vengono pagati molto meno rispetto ai loro colleghi esteri": al massimo molto meglio laurearsi... e poi scappare. Questa bassa percentuale, quindi, nasce anche da questo: anche chi decide di laurearsi, poi non resta in Italia.

I problemi della formazione italiana non si fermano certo solo al numero di laureati; per ora ci fermiamo qui. Ci sarà occasione per parlarne meglio.

le pensioni

E' inutile ripetere le molte cose già dette sulle pensioni, basterà leggere i molti articoli già scritti; qui vogliamo ribadire che l'alta spesa pensionistica ha sicuramente effetti diretti e indirette sul mercato del lavoro.
Prima di tutto, all'alta spesa corrispondono le altissime aliquote contributive, e le altissime tasse utilizzate per finanziarla; i bassi livelli retributivi visti all'inizio derivano quindi da lì.
E in tutto questo i sindacati hanno avuto un ruolo fondamentale.
Agli inizi degli anni '90 era ormai chiaro che il sistema pensionistico non poteva reggere, era evidente che andava riformato, ma i sindacati hanno rappresentato la forza più conservatrice nel processo di cambiamento.
Il risultato è che il costo delle varie riforme pensionistiche è stato scaricato tutto sulle spalle delle nuove generazione, e poco e nulla è stato toccato dei privilegi delle pensioni del passato (e del presente).
Anche gli strumenti utilizzati anche per contenere la spesa pensionistica nel breve periodo hanno anche avuto effetti significativi sul mercato del lavoro.
Si è puntato quasi esclusivamente sull'innalzamento dell'età pensionabile, e questo, in un contesto di scarsa crescita, prima, e di crisi, poi, ha tenuto fuori dal mondo del lavoro sempre più giovani.



Va rilevato che questa situazione non comporta grossi problemi solo nel presente, ma anche nel futuro; dato l'attuale sistema contributivo, questi 'buchi' contributivi di chi resta disoccupato produrranno pensioni future molto più basse. L'Oecd calcola che un 'buco' di 5 anni, determinerà una riduzione del 10% rispetto a quella di una carriera 'piena'.




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Ecco, questi sono solo alcuni brevi aspetti del problema: si potrebbe continuare a lungo, approfondendo ognuno di questi temi, o parlando anche di produttività, costo del lavoro, di struttura produttiva, etc...

Il FATTO è che i sindacati hanno un ruolo fondamentale o importante in ognuna di queste problematiche. Non si può quindi pensare di risolverle senza cambiare, e radicalmente,  il sistema sindacale.

E per cambiarlo bisogna restituire ai lavoratori, che sono i diretti titolari dei diritti di rappresentanza e contrattazione la piena disponibilità di questi diritti, affinché possano scegliere veramente chi possa rappresentarli al meglio.

Occorre liberalizzare il settore sindacale, creando un vero pluralismo, una vera concorrenza, aprendo a soggetti professionali e capaci, che possano magari integrare il potere di rappresentanza con l'utile servizio della ricerca di lavoro.

Occorrono sindacati che aiutino i lavoratori a trovare il lavoro migliore, non sindacati che lo aiutino a tenersi il posto di lavoro peggiore.

Occorre più libertà per i lavoratori, contro l'incapacità degli attuali sindacati a rappresentare i loro interessi.


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